I gruppi, gli interessi sociali e il loro principio ordinatore. Fenomeno giuridico e fenomeno associativo
L’uomo non vive isolato ma costituisce dei gruppi sociali, più o meno complessi. In ciascuno di questi gruppi si entra a far parte involontariamente (ad esempio ciascuno di noi fa parte dello Stato per il semplice fatto di essere nato) o volontariamente (è il caso dell’ammissione ad un partito politico). I gruppi esistono in quanto alcuni interessi devono essere soddisfatti attraverso la cooperazione di più uomini. Gli interessi tutelati da tali gruppi sono individuali e collettivi.
Solo i secondi possono essere soddisfatti in forma associata, quelli individuali riguardano una singola persona.
Quando si prende a riferimento, invece, l’interesse dell’intero gruppo esso viene definito generale. Quest’ultimo ricomprende al suo interno sia gli interessi individuali che quelli collettivi. L’interesse generale, quindi, diventa bene comune.
Altrettanto importanti sono gli interessi diffusi. Sono quelli strettamente collegati agli interessi e ai bisogni della collettività, come l’ambiente e la salute. Questa particolare categoria di interessi si caratterizza per il fatto che essi non hanno un vero e proprio centro di riferimento, ma sono collegati a una serie di individui non specificatamente determinati (ad esempio i consumatori).
L’interesse individuale può diventare antisociale, qualora si ponga in contrasto con altri interessi individuali o generali. Allo stesso modo anche gli interessi collettivi possono essere in contrasto con altri interessi collettivi.
Questi interessi sono collegati a un principio di confliggenza-composizione: un gruppo sociale che persegue questi interessi in modo disordinato e senza regole non garantirebbe la convivenza tra soggetti. Per questo bisogna considerare anche un principio regolatore, che disciplina ed evita una confliggenza tra interessi puramente irrazionale.
Dal punto di vista del diritto costituzionale a noi interessa comprendere la differenza tra: tirannia (interesse di uno solo), oligarchia (interessi di poche persone) e democrazia (interessi di tutti).
Dopo la creazione del gruppo sociale, esso si dota di alcune regole. Esse hanno funzione organizzativa, diretta a dare al gruppo stabilità e continuità. Tali regole servono a fissare il vincolo associativo. La stabilità serve a differenziare il gruppo da mere riunioni tra associati. Un gruppo senza organizzazione è una contraddizione.
La famiglia, art. 29 Cost., è il primo gruppo sociale. Al suo interno ci sono norme imposte dall’esterno (ovvero da leggi e Costituzione) e norme interne (alcuni ambiti della vita familiare sono lasciati alla libera determinazione dei soggetti).
Per dare esistenza al gruppo sociale deve esserci organizzazione, le regole devono essere rispettate e nel caso di violazione delle stesse dovranno essere applicate delle sanzioni. Le regole quindi devono essere vigenti.
Tali aspetti valgono non solo per la famiglia, ma anche per altre associazioni come sindacati e partiti.
Pertanto, i due elementi del gruppo sono: il principio ordinatore e la vigenza di regole. Questi due aspetti per avere rilevanza devono concretizzarsi nella realtà. Ed è proprio qui che distinguiamo il piano formale da quello sostanziale: il primo rimane pura astrazione, il secondo dovrà trovare riscontro nella realtà concreta.
Possiamo distinguere i gruppi sociali a seconda degli interessi che perseguono: economici, culturali, religiosi, ecc.
Il fenomeno giuridico del gruppo sociale non si esaurisce nel fatto organizzativo. Ci sono altre regole che vengono in rilievo. Ci sono ad esempio alcune regole che attribuiscono alcuni diritti. È il caso dell’art. 42 Cost. che stabilisce come “la proprietà privata è riconosciuta” secondo specifici presupposti.
Rimane fermo il presupposto che queste regole hanno il loro fondamento in uno specifico valore che il gruppo sociale vuole raggiungere. Proprio per tale motivo le regole vengono definite istituzionali. In secondo luogo tali regole devono essere definite in modo chiaro, così da consentire all’interprete di individuare l’interesse da esse perseguito.
Quest’ultimo aspetto riguarda il problema del linguaggio giuridico del legislatore, spesso ambiguo e polisenso, o anche impreciso. A ciò deve aggiungersi anche che, spesso, una materia viene disciplinata da più leggi creando ancora più confusione.
Quindi le regole del gruppo esprimono un valore (come ad esempio la libertà e la giustizia) costituzionalmente garantito. Valori astratti che vengono positivizzati nelle regole istituzionali.
Il diritto, però, non deve risolversi in una pura formulazione verbale, ma deve essere espressione di una comunità sociale in un determinato momento storico.
La teoria istituzionale del Romano e la dottrina pura del diritto di Kelsen. La concezione istituzionale del diritto nel pensiero di Mortati
La prima teoria è quella che collega il fenomeno giuridico al gruppo sociale, ad ogni singolo gruppo sociale, escludendo che vi sia un solo ordinamento giuridico, quello statale. Tale teoria vuole cogliere la realtà del diritto: ogni gruppo crea il suo diritto, autonomo da quello statale. Quindi a formare il diritto è idoneo lo Stato, ma anche il singolo comune o la Chiesa. Santi Romano, più specificatamente, ha elaborato il concetto di istituzione, sostituendolo a quello di comunità. Egli afferma che il diritto non sono le regole della comunità, bensì il diritto è l’istituzione stessa. L’istituzione, secondo Santi Romano, è la simbiosi tra norme, organizzazione, soggetti e interessi coinvolti nella società. Quindi ordinamento e istituzione sono la stessa cosa. Il merito di questa teoria sta nel fatto che il fenomeno giuridico non è solo fenomeno normativo. L’istituzione deve essere stabile e permanente. La mancanza di tale teoria è il non aver considerato il fenomeno associativo che è alla base dell’istituzione.
Secondo l’opposta teoria, definita normativa, il diritto si esaurisce nelle norme, intese come comandi. Il più illustre autore di tale dottrina è Kelsen. Egli non si chiede come deve essere il diritto, ma specifica solo che il giurista deve chiarirlo. Inoltre identifica il diritto come un sistema di norme che regola l’agire umano e la norma è uno schema qualificativo di un fatto esteriore. Un ordinamento è un sistema di norme, la cui unità si fonda sul fatto che tutte hanno il loro fondamento in una norma fondamentale da cui si deduce la validità di tutte le altre. Quindi il diritto è un insieme di norme regolanti (o superiori) e norme regolate (o inferiori) e tale differenza crea una costruzione a gradi dell’ordinamento. Una norma è condizione di validità di un’altra norma e condizionata, in relazione alla sua validità, a una norma superiore. Ne deriva che la norma fondamentale deve essere stabile ed efficace nel tempo.
Questa teoria, definita “pura del diritto” è stata soggetta a critiche. Ovvero, una norma fondamentale solo ipotetica potrebbe creare degli spazi inconoscibili del diritto.
Mortati si rifà alla teoria istituzionale, ovvero a quella di Santi Romano. Egli sostiene che la sola identificazione delle norme è una rappresentazione monca del fenomeno giuridico. Da qui, quindi, è necessario risalire all’istituzione, intesa come intima struttura associativa. Così intesa l’istituzione è sinonimo di costituzione.
Il diritto e gli altri fenomeni sociali
Tutte queste teorie, pur partendo, da aspetti diversi approdano ad una stessa conclusione. Tutti fanno riferimento ad un assetto fondamentale che Romano identifica nell’istituzione, Kelsen nella norma fondamentale e Mortati nel gruppo sociale e nei bisogni di tale gruppo. Dunque, trova conferma la tesi della socialità del diritto.
Le norme regolano comportamenti umani e quindi l’ordinamento giuridico è ordinamento sociale, diretto ad assicurare sicurezza. Questa conclusione sembra però non differenziare il diritto da altri fenomeni sociali come la morale. Le leggi morali hanno natura ben diversa dal codice civile o da qualunque altra legge.
Questa differenza, però, non esclude che tali fenomeni possano influenzare il diritto. Ad esempio l’art. 1337 c.c. secondo cui “le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”.
Quindi, si può sostenere che tali regole morali (come anche quelle economiche o religiose) da sole non assicurano la convivenza e la coesione del gruppo, ma, unitamente al fenomeno giuridico, possono costituirlo. Solo il diritto, quindi, nella sua componente formale e sostanziale, crea un gruppo e gli conferisce stabilità.
Il diritto è fatto razionale di composizione di interessi (elemento materiale) e composizione stabilizzata nel tempo da norme di organizzazione (elemento formale).