La disciplina dell’uso della forza armata prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite
Prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, gli Stati godevano di un’ampia libertà di ricorrere alla forza armata. La Carta ha quasi abolito questa libertà.
Anteriormente al Patto della Società delle Nazioni, gli Stati godevano di un illimitato ius ad bellum, cioè di un illimitato diritto di ricorrere alla guerra. La guerra era un mezzo ammesso dall’ordinamento internazionale, che ne disciplinava le modalità di esecuzione con le regole del cd. diritto bellico. Non era necessario dimostrare l’esistenza di un titolo giuridico per ricorrere alla guerra, essa poteva venire dichiarata a tutela di semplici interessi ed era considerata un mezzo per la soluzione delle controversie internazionali, nella specie di quelle politiche. Tuttavia, accanto alla guerra in senso tecnico, esistevano procedimenti di autotutela implicanti l’uso della forza, ma diversi dalla guerra, in quanto non comportavano la sospensione del diritto internazionale di pace. Per poter ricorrere a procedimenti di autotutela diversi dalla guerra, ad esempio la rappresaglia armata o il blocco pacifico, occorreva dimostrare l’esistenza di un titolo giuridico. Pertanto, una rappresaglia armata era lecita solo se il soggetto agente aveva subito un torto. In altri termini, nella comunità internazionale vigeva una illimitata possibilità di ricorrere alla guerra e un limitato ricorso a misure di coercizione diverse dalla guerra.
Una tra le prime manifestazioni della tendenza a limitare il ricorso alla forza armata è da rinvenire nell’articolo 1 delle Convenzioni dell’Aja del 1889 e 1907 relative alla soluzione pacifica delle controversie.
Il Patto della Società delle Nazioni (Covenant), concluso nel 1919, era destinato a limitare l’ampia libertà che avevano gli Stati di ricorrere alla forza. Gli Stati dovevano rispettare e proteggere, contro ogni aggressione esterna, l’integrità territoriale e l’attuale indipendenza politica degli altri Stati membri. Gli Stati inoltre assumevano l’impegno di non ricorrere in dati casi alle armi. Il Patto sanciva il dovere di risolvere pacificamente le controversie internazionali, obbligando gli Stati a sottoporre le controversie a regolamento arbitrale o giudiziale (Corte permanente di giustizia internazionale) o al Consiglio della Società delle Nazioni. Il Patto stabiliva una moratoria perché gli Stati erano obbligati a non ricorrere alle armi prima che fossero trascorsi tre mesi dalla decisione arbitrale o giudiziale o dalla relazione del Consiglio. Veniva sancito un divieto generale di muovere guerra ad uno Stato che si conformasse al lodo arbitrale o alla sentenza della Corte permanente. Altresì, la guerra era vietata nei confronti dello Stato membro che si fosse conformato alla relazione del Consiglio, purché questa fosse stata approvata all’unanimità. Il Patto, pertanto, non escludeva totalmente la guerra, essendo questa sempre possibile. Né venivano banditi i procedimenti di autotutela violenta diversi dalla guerra, dal momento che il sistema si riferiva esplicitamente alla guerra. Le rappresaglie armate, ad esempio, erano considerate lecite.
Il processo volto a limitare e a bandire il ricorso alla guerra conquista un’altra tappa fondamentale con la conclusione del Patto di Parigi o di rinuncia alla guerra. Il Patto, che consta di solo tre articoli, sancisce la rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale e ne condanna il ricorso come strumento per la soluzione delle controversie internazionali. Queste devono essere risolte esclusivamente con mezzi pacifici. Ma anche il Patto lasciava ampie zone grigie, specialmente per le misure vicino alla guerra, poiché solo la guerra veniva esplicitamente proibita. Non venivano banditi né l’intervento né le rappresaglie armate. Il Patto non definiva la legittima difesa, che veniva data per presupposta.
Il Patto, comunque, gettò le basi giuridiche dei processi di Norimberga e di Tokyo, dal momento che condannava la guerra come strumento di politica nazionale. L’Accordo di Londra del 1945 definì la guerra di aggressione come un crimine internazionale, in particolare contro la pace.
Il contenuto della proibizione stabilita dall’art. 2, par. 4, della Carta delle Nazioni Unite
Il sistema esistente prima della fine della seconda guerra mondiale è stato rivoluzionato con l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite nel 1945. La Carta prevede un divieto generale di ricorsa alla forza armata e un eccezione, costituita dalla legittima difesa individuale e collettiva. L’uso della forza avrebbe dovuto essere monopolio del Consiglio di sicurezza quando si verifichi una minaccia alla pace, una violazione della pace o un atto di aggressione. Il sistema non ha funzionato nella sua interezza. Tuttavia, il divieto è rimasto un principio fondamentale, da qualificare oramai come norma imperativa del diritto internazionale, almeno nel suo nucleo essenziale. La proibizione dell’uso della forza è oggetto di continue erosioni, poiché gli Stati cercano di giustificare il ricorso alla violenza invocando una interpretazione estensiva della nozione di legittima difesa oppure definendo nuove eccezioni.
La Corte Internazionale di giustizia, nel caso Nicaragua-Stati Uniti, ha affermato che il principio del divieto dell’uso della forza, sancito nell’art. 2, par. 4, della Carta, appartiene al diritto consuetudinario. Bisogna certamente effettuare un’analisi di tale disposizione, poiché tutti i membri della comunità internazionale sono vincolati dalla Carta delle Nazioni Unite.
In primo luogo, occorre accertare il significato del termine forza, per determinare se oggetto della proibizione sia soltanto la minaccia e l’uso della forza armata o, al contrario, anche la coercizione economica. L’art 2, par. 4, proibisce solo la minaccia e l’uso della forza armata. Ciò è provato da una interpretazione sistematica del testo ed è confermato dai lavori preparatori. Negli altri luoghi in cui la Carta usa il termine forza, esso è accompagnato dalla precisazione che si tratta di forza armata oppure, dove la qualificazione non compare, il contesto induce chiaramente ad escludere che si sia inteso fare riferimento alla coercizione economica. Nella Dichiarazione sulle relazioni amichevoli, la coercizione economica è presa in considerazione nell’ambito del principio del non-intervento e non in quello del divieto di uso della forza.
L’art 2, par. 4, vieta non solo l’uso della forza armata ma anche la semplice minaccia. Non è facile determinare cosa possa costituire minaccia, tranne alcuni esempi macroscopici come un ultimatum. Ad es., la Nato, il 13 ottobre 1998, lanciò un ultimatum alla Repubblica Federale di Jugoslavia, affermando che avrebbe usato la forza qualora questa non avesse posto fine ai maltrattamenti della popolazione albanese del Kosovo.
Può la costituzione e messa a punto di un notevole livello di armamento, da parte di uno Stato, essere considerata una minaccia della forza nei confronti degli Stati vicini? La Corte Internazionale di giustizia lo ha escluso. Nella controversia tra Nicaragua e Stati Uniti, essa ha affermato che secondo il diritto internazionale consuetudinario non esistono vincoli al livello di armamento di ciascuno Stato. Tali vincoli potrebbero derivare solo dal diritto pattizio e in particolare dai trattati di limitazione degli armamenti.
Un problema particolare si è posto per le armi nucleari. La Corte internazionale di giustizia distingue tra il mero possesso delle armi nucleari e la dissuasione nucleare. Mentre il semplice possesso non è minaccia della forza, la dissuasione nucleare è fondata sulla minaccia dell’uso dell’arma nucleare, poiché lo Stato che la possiede è pronto ad usarla in risposta a un attacco nucleare. La Corte non ha però condannato la dissuasione nucleare, Essa ha affermato che la liceità della dissuasione, cioè la minaccia del l’uso dell’arma nucleare, va commisurata alla liceità dell’uso della forza programmata. Se questo è lecito, ad esempio la reazione in legittima difesa, sarà pure lecita la dissuasione nucleare.
Non è minaccia della forza l’esercizio di un diritto. Se uno Stato attraversa uno stretto internazionale con navi da guerra, non commette un illecito internazionale. Nel caso del canale di Corfù la Corte Internazionale di giustizia affermò che il passaggio della squadra navale britannica era lecito, poiché si trattava dell’esercizio del diritto di passaggio inoffensivo in uno stretto internazionale, ingiustamente negato dall’Albania.
La proibizione contenuta nell’articolo 2, par. 4, della Carta non ha per oggetto qualsiasi minaccia o uso della forza, ma solo quelli esercitati dagli Stati nelle loro relazioni internazionali. Oggetto della proibizione è la forza esercitata al di là del territorio statale, sia nell’ambito territoriale di un altro Stato sia in uno spazio non soggetto alla sovranità di alcuno, come l’alto mare. Cosa succede nel caso di forza esercitata all’interno del territorio statale contro organi o beni di uno Stato estero? E’ sicuramente coperta dall’art. 2 par. 4, la forza usata contro corpi di truppa lecitamente stanziati all’interno del territorio statale. Oggetto di controversia è il caso in cui la forza venga usata contro agenti diplomatici o contro la sede di una rappresentanza diplomatica. Mentre per alcuni sarebbe violazione dell’art. 2, par. 4, della Carta, per altri, lo Stato territoriale, nell’impiegare la forza all’interno del proprio territorio, incorrerà nella violazione di altre norme di diritto internazionale ma non dell’art 2. par. 4.
Neppure le misure prese dal governo legittimo per reprimere una insurrezione costituiscono un esempio di forza impiegata nelle relazioni internazionali. Un problema particolare è rappresentato dalla forza impiegata per reprimere il diritto alla autodeterminazione di un popolo soggetto a dominazione coloniale. I territori su cui sono stanziati i popoli sotto dominazione coloniale costituiscono una entità separata dalla madrepatria. Pertanto, si potrebbe pensare che la forza usata per reprimere l’autodeterminazione sia oggetto del divieto stabilito dall’articolo 2, par. 4. In tal caso, a nostro parere, la forza è oggetto di un divieto stabilito non tanto dall’art. 2 par. 4, ma da una norma ad hoc formatasi parallelamente a tale disposizione ed avente per oggetto i popoli sotto dominazione coloniale.
L’art. 2, par. 4, vietando la minaccia o l’uso della forza armata, precisa come il divieto abbia per oggetto la forza usata sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. Ciò significa che la minaccia o l’uso della forza, anche qualora non violassero l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, sarebbero vietate ove fossero in contrasto con i fini stabiliti dall’articolo 1 della Carta. In breve, l’art. 2, par. 4, pone un divieto di carattere assoluto. Si è peraltro tentato di limitarne la cogenza in base all’interpretazione letterale o funzionale della disposizione in esame. Così si è affermato che non sarebbero vietate quelle azioni coercitive che non abbiano per oggetto la violazione dell’integrità territoriale o dell’indipendenza politica di un altro Stato. Ma tale interpretazione è errata sia in quanto l’articolo 1 della risoluzione dell’Assemblea Generale sulla definizione di aggressione condanna anche la violazione della sovranità territoriale; sia perché la minaccia o l’uso della forza, anche a supporre che non violino l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, sarebbero comunque contrarie ad uno dei fini delle Nazioni Unite. Neppure è accettabile la soluzione di chi ritiene che la cogenza dell’art. 2, par. 4, dipenda dal sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite, affermando che la disposizione in esame pone un divieto assoluto nella misura in cui il sistema funzioni; in caso di mancato funzionamento gli Stati sarebbero liberi di ricorrere alle forme di autotutela ammissibili prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite. Tale opinione sconfessata dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia nel caso del Canale di Corfù, è stata esplicitamente ritenuta infondata nel caso Nicaragua-Stati Uniti.
I progressi compiuti dall’informatica e il largo uso delle sue applicazioni nei sistemi d’arma hanno indotto a chiedersi se l’impiego di mezzi informatici contro uno Stato possa essere considerato una violazione dell’art. 2, par. 4, della carta, il cosiddetto cyberwarfare. In linea di principio, l’uso dei mezzi informatici riguarda i metodi di combattimento piuttosto che il ricorso alla forza armata, cioè il diritto bellico e non lo ius ad bellum. Qualora il sistema informatico sia usato per pregiudicare il sistema economico finanziario di uno Stato, la condotta dello Stato attore potrebbe essere considerata lesiva del principio del non intervento.
Per poter qualificare l’impiego di tecniche informatiche come una violazione dell’art. 2, par. 4, l’attacco cibernetico dovrebbe provocare un effetto cinetico, come la distruzione di beni o l’uccisione/ferimento di persone, per poter essere considerato una violazione del divieto di ricorso alla forza armata. Si è anche affermato che la distruzione mediante un attacco cibernetico di sistemi informatici di significativa importanza potrebbe costituire una violazione dell’art. 2, par. 4.
Il divieto dell’uso della forza non è disposto solo da una norma di diritto internazionale pattizio, ma è ormai prescritto da una norma consuetudinaria. Solo un ristretto nucleo della norma che vieta l’uso della forza nelle relazioni internazionali può essere qualificato come appartenente allo jus cogens. La precisazione è importante poiché le cause di esclusione del fatto illecito sono operanti nei confronti di una norma di diritto internazionale consuetudinario, ma non operano in relazione a una norma che abbia natura imperativa.
Controverso è se anche un uso della forza armata di minore gravità, quale ad es. un’uccisione mirata o una modesta scaramuccia di frontiera, integri gli estremi di una violazione dell’art. 2, par. 4. Taluno si è espresso recentemente in senso affermativo.
Poiché la proibizione contenuta nell’art. 2, par. 4 della Carta delle Nazioni Unite deve essere ormai intesa come svincolata dal sistema della Carta, non sono condivisibili quelle teorie secondo cui la proibizione dell’uso della forza non avrebbe più valore quando il sistema di sicurezza collettiva non funziona. Parimenti inaccettabile l’opinione secondo cui la proibizione della Carta delle Nazioni Unite sarebbe caduta in desuetudine e sarebbe stata travolta dalla prassi contraria.