La legittima difesa collettiva
L’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite attribuisce agli Stati non solo un diritto di legittima difesa individuale, ma anche collettiva. Ciò significa che uno Stato, benché non sia oggetto di un attacco armato, può intervenire a favore di uno Stato che abbia subito un tale attacco.
L’art. 51, prendendo in considerazione l’attacco armato contro uno Stato membro delle Nazioni Unite, sembrerebbe escludere dalla titolarità del diritto di legittima difesa collettiva i non membri. La questione venne sollevata in occasione dell’intervento degli Stati Uniti nel Vietnam, non essendo il Vietnam del Sud membro delle Nazioni Unite. Ogni dubbio è stato però tolto dalla Corte internazionale di giustizia che, nel caso Nicaragua-Stati Uniti, ha espressamente statuito l’appartenenza del diritto di legittima difesa collettiva al diritto internazionale consuetudinario.
Naturalmente, affinché il diritto di legittima difesa collettiva possa essere esercitato, devono verificarsi le stesse condizioni della legittima difesa individuale. La vittima, cioè, deve essere stata oggetto di un attacco armato. Anche per la legittima difesa collettiva esistono due scuole di pensiero: taluni ammettono la liceità della legittima difesa collettiva solo dopo che un attacco armato abbia avuto luogo o sia stato quantomeno sferrato (ad es. i missili sono stati lanciati ma non hanno ancora raggiunto il territorio nemico); altri ammettono anche la liceità della legittima difesa preventiva. A nostro parere, non si vede alcun motivo per cui non possa ammettersi l’intervento in legittima difesa collettiva, quando l’attacco armato sia imminente. Nel caso di legittima difesa collettiva, occorre aggiungere un’ulteriore limitazione per il terzo che intende intervenire: l’imminenza dell’attacco deve essere di una gravità tale, che l’intervento in soccorso dei terzo è assolutamente necessario, non potendo lo Stato oggetto della minaccia far fronte al futuro attacco con i propri mezzi.
La legittima difesa collettiva può essere esercitata anche contro un attacco proveniente da un attore non statale e comportare azioni militari nel territorio da cui proviene l’attacco. Ad es., gli Stati Uniti hanno giustificato le incursioni in Siria contro l’ISIL come esercizio della legittima difesa collettiva, su richiesta dell’Iraq, il cui territorio era oggetto di attacchi provenienti dal territorio siriano ed imputabili all’ISIL.
Uno Stato non può intervenire a favore di un altro contro un terzo Stato, senza che la vittima abbia constatato di essere stata oggetto di un attacco armato ed abbia richiesto l’intervento a suo favore. La ratio di questa regola è chiara: debbono effettivamente sussistere le condizioni per l’esercizio della legittima difesa e l’esistenza di queste condizioni deve essere determinata dallo Stato vittima. Ad esso spetterà accertare se ci sia stato un attacco armato e determinare se convenga reagire senza l’aiuto di un altro Stato o invece chiamare in soccorso un altro soggetto di diritto internazionale. Allo Stato leso spetta valutare l’opportunità di reagire in legittima difesa e di chiedere l’aiuto del terzo. In caso di minore violazione dell’art. 2, par. 4, lo Stato leso potrebbe decidere di non intraprendere alcuna azione armata, mentre potrebbe convenire al terzo, che persegue propri riti egemonici, invocare la legittima difesa collettiva ed effettuare un intervento armato. Ovviamente la constatazione dell’esistenza delle condizioni per l’esercizio della legittima difesa da parte dello Stato vittima non esime lo Stato interveniente da un appropriato “giudizio di verifica”: se, infatti, le condizioni in questione non sussistessero, lo Stato interveniente commetterebbe un illecito internazionale, nonostante la richiesta dello Stato che pretende di essere vittima di un, attacco armato, imminente o in atto.
Patti militari per l’organizzazione della difesa collettiva
La mancata attuazione del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite portò ben presto gli Stati a mettersi al riparo con patti di difesa collettiva. Questi patti organizzano preventivamente la legittima difesa collettiva e sono perfettamente legittimi, purché conformi all’art. 51 della Carta.
Uno dei primi patti stipulati in materia di legittima difesa collettiva in Europa è il Patto di Bruxelles del 1948, successivamente emendato nel 1954 e costitutivo dell’UEO (Unione dell’Europa Occidentale). Il casus foederis (caso di alleanza) era previsto nell’art. V, che a parere di taluni conteneva un obbligo di assistenza automatico a favore della vittima dell’attacco armato.
Il trattato istitutivo dell’UEO è stato per lungo tempo tenuto politicamente quiescente e riscoperto in connessione con il processo d’integrazione europea, in particolare l’UEO suppliva alla mancanza di una clausola di difesa collettiva nell’ambito dell’UE. Il Trattato di Lisbona prevede una clausola sulla legittima difesa collettiva in virtù della quale “qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”. L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha pertanto comportato l’abrogazione implicita dell’art. V del Trattato UEO.
Ben altra importanza è da collegare al Trattato istitutivo della Nato nel quale il casus foederis è previsto dall’art. 5. Tale articolo secondo la maggioranza della dottrina, non comporta un obbligo di assistenza automatico, poiché ciascuno Stato parte dovrà prestare l’assistenza che giudicherà necessaria. L’art. 5 è stato per la prima volta attivato dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti.
Di notevole interesse è il fatto che il Trattato Nato definisca i beni che, se oggetto di attacco armato, fanno scattare il meccanismo di legittima difesa collettiva. Tali beni includono, oltre al territorio di uno Stato membro, le forze armate, navi ed aeromobili di una delle parti. Non viene specificato se si debba trattare di navi ed aeromobili militari o anche civili.
Gli Stati del continente americano hanno invece organizzato il loro sistema di sicurezza nell’ambito del Trattato interamericano di assistenza reciproca o Trattato di Rio del 1947. Secondo l’art. 3 di tale Trattato, un attacco armato da parte di qualsiasi Stato contro uno Stato americano è considerato come un attacco contro tutti gli Stati americani. Le parti contraenti hanno l’obbligo di assistere lo Stato attaccato, qualora l’attacco abbia luogo nei territori coperti dal Trattato. In attesa che l’Organo di consultazione decida le misure adeguate, ogni Stato parte, su richiesta dello Stato attaccato, determinerà le misure che potrà intraprendere per venire in soccorso dello Stato attaccato. L’Organo di consultazione potrà decidere misure che gli Stati membri hanno l’obbligo di intraprendere, salvo che si tratti di usare la forza armata, poiché uno Stato non può essere obbligato a farvi ricorso senza il suo consenso.
Patti per la difesa collettiva sono stati conclusi anche nel continente africano, tra cui Patto di non-aggressione e di difesa comune dell’Unione Africana (2005) e Patto della Regione dei Grandi Laghi su sicurezza, stabilità e sviluppo (2006).
Il divieto dell’uso della forza nella Costituzione italiana
Nella Costituzione italiana vengono in considerazione due disposizioni per determinare quando lo Stato italiano possa ricorrere legittimamente alla forza armata oppure quando l’uso sia illegittimo: gli artt. 10, 1° comma, e 11.
La prima disposizione dispone l’adattamento del diritto interno al diritto consuetudinario e al diritto cogente. Pertanto nel nostro ordinamento sono proibite tutte quelle azioni vietate dal diritto consuetudinario e dal diritto cogente. Esiste una perfetta corrispondenza tra divieto dell’uso della forza nell’ordinamento internazionale e nell’ordinamento interno. Di particolare rilevanza è la norma cogente sul divieto di aggressione. La norma interna di adattamento impone allo Stato italiano di non ricorrere, singolarmente o insieme ad altri Stati, alla forza armata che possa qualificarsi come aggressione e di non stipulare alleanze militari di natura aggressiva.
La corrispondenza ha per oggetto anche le azioni consentite dall’ordinamento internazionale. Di conseguenza sarà consentita la legittima difesa individuale e collettiva. Quanto alla legittima difesa preventiva, il suo possibile esercizio dipende dall’interpretazione data all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite nella sua configurazione di norma consuetudinaria.
La Costituzione italiana, mediante l’art. 11, contiene inoltre un’autonoma disposizione sul divieto dell’uso della forza e di apertura alle organizzazioni internazionali competenti nel campo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La disposizione consta di tre proposizioni che vanno lette congiuntamente.
La prima prescrive il ripudio della guerra; la seconda consente limitazioni di sovranità necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni; la terza esprime un impegno a favorire le organizzazioni internazionali volte a promuovere la pace e la giustizia tra le Nazioni.
L’art. 11, però, non vieta qualsiasi guerra, ma solo quella volta a offendere la libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. In altri termini, l’art. 11 vieta la guerra di aggressione, ma non ad es. una guerra in legittima difesa, sia che si tratti di difendere il territorio nazionale, sia che si tratti di venire in soccorso di uno Stato aggredito.
Quanto alle limitazioni di sovranità, consentite dalla seconda proposizione dell’art. 11, esse furono stabilite allo scopo di favorire l’ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite. Le limitazioni di sovranità sono consentite solo in condizioni di parità con gli altri Stati. Ma occorre dare un’interpretazione elastica, considerando che le stesse Nazioni Unite non possono essere considerate un’organizzazione tra eguali.
L’impegno a promuovere le organizzazioni volte a favorire la pace e la giustizia tra le Nazioni viene inteso come diretto a incoraggiare la partecipazione dell’Italia alle Nazioni Unite, ma anche ad organizzazioni regionali come l’UE.
Tra l’altro l’art. 11 vieta solo la guerra, cioè i conflitti caratterizzati da un uso macroscopico della forza armata, ma non dispone in merito agli interventi militari non qualificabili come guerra, la cui liceità deve essere valutata in base alle norme dettate dall’ordinamento internazionale e dalle Nazioni Unite.
L’art. 11 consente quindi la partecipazione italiana alle operazioni di peace-enforcement decise dalle Nazioni Unite e, in combinato con l’art. 10 Cost., alle azioni comportanti l’uso della forza autorizzate dal Consiglio di sicurezza, ad esempio un intervento umanitario.
Un ruolo deve essere altresì assegnato all’art. 117, 1° comma, Cost., secondo cui la potestà legislativa dello Stato è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi interazionali, oltreché dalla Costituzione e dall’ordinamento UE.