diritto del lavoro
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Il percorso storico del diritto del lavoro italiano

Lo sviluppo del diritto del lavoro industriale

Il diritto del lavoro è il complesso di norme che regolano il mondo del lavoro. Queste norme si trovano, non solo, nei codici e nelle leggi ma anche negli accordi collettivi (stipulati tra le parti sociali, ovvero i rappresentanti di imprenditori e lavoratori).

In altri casi rilevano, nel diritto del lavoro, anche le prassi consuetudinarie.

Il diritto del lavoro, oggetto del nostro studio, è quello industriale, ovvero quello che introdusse la macchina nei processi lavorativi.

Lavoro e diritto nei primi decenni dell’Italia liberale dopo l’unità d’Italia (1861)

il rapporto di lavoro si svolgeva tra il padrone, proprietario della fabbrica, e un ex artigiano o un ex contadino, ovvero il lavoratore. Tale relazione era squilibrata: spesso chi cercava lavoro doveva sottostare alle condizioni del padrone, ciò in quanto la sua figura era facilmente rimpiazzabile da altri soggetti.

Dal punto di vista giuridico la relazione veniva disciplinata dal codice del 1865, che, però non conteneva una disciplina dettagliata del diritto del lavoro. Si limitava a vietare la stipulazione di contratti lavorativi a tempo indeterminato. Il contratto, quindi, diventa il fulcro fondamentale della disciplina: ognuna delle parti poteva regolare, come meglio credeva, la relazione. Rimaneva, però, un forte squilibrio tra lavoratore e padrone.

L’unico mezzo che avevano i lavoratori per sottrarsi ai ricatti del proprietario di fabbrica era la costituzione di coalizioni, ovvero più soggetti si riunivano per esercitare i solo diritti. Senonché il codice sardo decise di proibire la formazione di intese tra gli operai.

vecchia fabbrica

La legislazione sociale a cavallo tra Otto e Novecento

Verso la fine dell’800, la situazione dei lavoratori era sotto gli occhi di tutti. Così si creò un movimento di opinione per contrastare lo sfruttamento degli stessi. Cominciarono a farsi strada alcune leggi “sociali” tra cui: la tutela del lavoro dei fanciulli e delle donne e l’obbligo per il datore di assicurarsi contro gli infortuni sul lavoro dei propri dipendenti.

Venne assicurato il riposo settimanale e festivo. Si badi però che tale legislazione non venne applicata a tutti i lavoratori ma solo a quelli della media e grande impresa industriale, ovvero a quei lavoratori che potevano ribellarsi più facilmente rispetto ad altri.

Vennero poi eliminati i divieti di coalizione e si diede vita alle prime associazioni di lavoratori. Il codice Zanardelli diede la possibilità di stipulare, con i datori, i primi contratti collettivi, così da definire in maniera equa le condizioni lavorative e l’ammontare dei salari. Venne poi considerata libera, anche se sottoposta alla sanzione civilistica del risarcimento, l’astensione collettiva dal lavoro, ovvero lo sciopero.

L’aggregazione operaia si trasformò in sindacato e nacquero le federazioni; queste ultime raggruppavano a livello nazionale tutte le associazioni dei lavoratori dello stesso settore produttivo.

La prima fu la FIOM.
A inizio novecento nacquero i “sindacati bianchi”, di matrice cattolica, che promuovevano, non la lotta, ma la collaborazione tra parti.
Nel 1910 nasce la Confederazione italiana dell’industria, poi nominata Confindustria.
Ogni norma sociale, in questo periodo, aveva il requisito dell’inderogabilità; ovvero la disposizione tesa a limitare il potere contrattuale delle parti non poteva essere annullata in tutto o in parte, in senso peggiorativo per il lavoratore.
Ruolo fondamentale lo ebbe una magistratura non togata, il collegio dei probiviri, che aveva il compito di dirimere le controversie di lavoro e individuare regole innovative che potevano essere un input per il legislatore.

Il corporativismo fascista

Durante l’epoca fascista venne brutalmente schiacciato l’associazionismo sindacale. Con le leggi fascistissime si rimodularono gli assetti economici e sociali del paese che incidevano sul diritto del lavoro. Nacque quindi il corporativismo, a differenza delle disposizioni liberali che vigevano in precedenza. Nel corporativismo l’unico interesse che veniva in rilievo era quello superiore dello Stato e della produzione nazionale.
Le corporazioni consistevano in aggregati di lavoratori e datori di lavoro dello stesso settore produttivo; i loro compiti, però, non furono mai ben definiti.
Ad ogni modo, in questa epoca il rapporto individuale di lavoro manteneva inalterato il suo carattere privatistico, con un rafforzamento dei poteri datoriali. Ci furono però anche interventi che migliorarono la tutela del lavoro soprattutto quello femminile, nonostante la quota rimase molto bassa.

Durante la crisi economica del 1929, il regime fascista si propose di risollevare le sorti tentando di intervenire in merito alla disoccupazione.
Ad ogni modo, però, venne abolita la libertà di organizzazione sindacale e si creò un unico sindacato, ente di diritto pubblico, che stipulava contratti collettivi; essi erano delle vere e proprie leggi applicate automaticamente a tutti i soggetti interessati.
Nel 1942 entrò in vigore il codice civile che si mostrava molto più aderente alle ideologie liberali e non più a quelle corporative. Con la caduta del fascismo si abrogò l’ordinamento corporativista e si ripristinò la libertà sindacale.

La Costituzione e le sue inattuazioni

Caduto il regime fascista e terminata la monarchia si formò un nuovo Stato. L’Italia si diede una Costituzione degna di un paese democratico e sociale. Ciò nonostante il mondo del lavoro oscillava tra ciò che formalmente era definito nelle norme costituzionali e ciò che nella realtà accadeva.

La Costituzione delineava una struttura politica e sociale “fondata sul lavoro” (art. 1); il lavoro era un “diritto riconosciuto e tutelato” (art. 4), in cui era radicata la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21). Lo Stato doveva, anche in questo settore, rimuovere diseguaglianze di fatto e promuovere condizioni per raggiungere una eguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2). Oltre a ciò venivano riconosciuti una seri di diritti: retribuzione adeguata, tutela del lavoro femminile, sciopero. Quest’ultimo non era più una libertà ma un vero e proprio diritto.
Nonostante questo assetto formalistico così all’avanguardia rimanevano logiche e dinamiche più vicine alla concezione autoritaria del potere datoriale. Si poteva licenziare liberamente; al lavoratore era negata la libertà di espressione nel luogo di lavoro e, spesso, le manifestazioni sindacali venivano punite.

Gli anni Sessanta e l’età del garantismo

Negli anni sessanta cominciò a cambiare qualcosa. In primo luogo entrò al governo il partito socialista; in secondo luogo si approvò una legge che finalmente richiedeva un valido motivo per licenziare.
Negli anni settanta il periodo di grande contestazione globale inglobava anche il mondo del lavoro. Si spinse per la costituzionalizzazione del rapporto tra datore e lavoratore e per una effettiva tutela garantista.

Nel 1970 arrivò lo Statuto del lavoratori, una sorte di costituzione del mondo dei lavori. Con tale atto vennero ridotti i poteri del datore e venne dato più sostegno ai sindacati “maggiormente rappresentativi”. Fu anche ridefinito il nuovo processo del lavoro.
Rimaneva però la questione che spesso tal provvedimenti erano rivolti ai lavoratori delle medie e grandi imprese, lasciando da parte quelli operanti nelle piccole imprese che in Italia rappresentavano una buona parte del settore produttivo.

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Il diritto del lavoro dell’“emergenza”

Nel 1973 ci fu una nuova crisi economica che provocò un brusco rallentamento nel mondo del lavoro. Vene effettuata una marcia indietro rispetto alle nuove conquiste ottenute allo scopo di evitare la disoccupazione.

Questo diritto del lavoro di emergenza portò a delle forme di lavoro flessibili e tolse il ruolo dominante al contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato per dare più spazio a forme di lavoro differenti.
Le imprese quindi tendevano a creare rapporti di lavoro meno stabili per il lavoratore. Nonostante questo venne dato molto rilievo agli ammortizzatori sociali (strumenti destinati ad attutire gli effetti della perdita o della riduzione del posto di lavoro) come la Cassa Integrazione. Anche il sindacato subì una crisi.

La concertazione sociale e le novità degli anni ‘80

La concertazione sociale era una prassi fondata su incontri periodici trilaterali tra governo, sindacati e associazioni imprenditoriali. Gli accordi conclusi tra queste parti le vincolavano e creavano una sorte di pace sociale.

La particolarità era che il governo interveniva non come mediatore ma come parte del negoziato.
Questa prassi si espanse in tutta Europa; i rappresentanti di datori e lavoratori decidevano di collaborare per interessi superiori. Questo fenomeno venne definito neocorporativismo. Il sistema delle concertazioni, colmo di alti e bassi, tendeva comunque ad adattarsi ai mutamenti sociali e politici.

Contemporaneamente ci fu anche la rivoluzione tecnologica, l’elettronica e l’informatica produssero i loro effetti nel mondo del lavoro. Seguiva la globalizzazione, la concorrenza mondiale e il ruolo dell’Unione Europea. Ci furono poi alcune leggi atte a definire una maggiore parità tra uomini e donne e l’eliminazione del licenziamento individuale immotivato.

Il “postmoderno” e le tendenze alla frammentazione

Nel 1990 ci fu una grossa crisi politica interna che spinse l’Italia a grossi sforzi riformatori. Ciò nonostante in Parlamento entrarono autorevoli studiosi di diritto del lavoro. In questi anni venne privatizzato il lavoro pubblico e la sicurezza sul lavoro venne vista, non più solo dal punto di vista del risarcimento del danno, ma anche da quello della prevenzione e del controllo. Dal punto di vista sindacale pur instaurandosi un rapporto democratico tra lavoratori e sindacato rimaneva una grossa crisi di adesione. Verso la fine del XX secolo, però, il diritto del lavoro risultava estremamente frammentato e destrutturato.

Il neoliberismo del XXI secolo

Nel primo decennio del 2000 il settore terziario era in fortissima espansione e i lavori “pesanti” non venivano più compiuti dagli italiani. La globalizzazione e l’europeizzazione facevano sì che l’Unione Europea assumesse un ruolo fondamentale nel diritto del lavoro.

Si perde quindi la centralità dei governi nazionali.
Nel 2003 con la legge Biagi si intendeva revisionare complessivamente il mercato del lavoro che era troppo incentrato su strutture contrattuali temporanee e precarie.

In tale contesto il ruolo dei sindacati veniva, però, sminuito in quanto il governo di centrodestra preferiva offrire un metodo di “dialogo sociale” in base al quali le parti sociali venivano solo consultate.

Ad esempio in tema di sicurezza sul lavoro si sviliva il ruolo della contrattazione collettiva per dare più spazio ai poteri decisionali e disciplinari della dirigenza. Con la crisi economica dei primi anni del 2000 ci fu un’ulteriore ondata di disoccupazione e impoverimento.

La legge Fornero del 2012 rivisitò tutti gli ammortizzatori sociali e definì il licenziamento senza giustificato motivo, sottoposto solo a indennizzo monetario; il Jobs Act del 2015 disegnò una serie di rapporti di lavoro flessibili e il decreto dignità del 2018 fece alcuni ritocchi in materia di lavoro a termine, somministrazione e licenziamenti.

La nuova funzione del diritto del lavoro e le priorità della Costituzione

Oggi il dritto del lavoro è dominato da una profonda precarietà. Il lavoratore non ha un lavoro stabile e spesso può solo confidare in tutele provvidenziali dello Stato molto poco risolutive. Non c’è più una tutela inderogabile della parte debole del rapporto, anzi spesso vengono accettate delle diseguaglianze. Questo però è inaccettabile a fronte della nostra Costituzione che definisce esattamente l’opposto.

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Riferimenti:

  • Da: “Diritto del lavoro e sindacale, Sintesi di Diritto Del Lavoro” di M. Esposito, L. Gaeta, A. Zoppoli, L. Zoppoli