principio di uguaglianza e equità
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Il principio costituzionale di eguaglianza e l’equità

Il principio di eguaglianza

Nella formulazione della norma giuridica è fondamentale il rispetto del c.d. principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 della Carta costituzionale. Da tale principio deve distinguersi il principio secondo il quale i pubblici uffici devono rispettare, nell’esercizio delle loro funzioni, il criterio della imparzialità (art. 97 Cost.), ossia l’obbligo di applicare il diritto in modo eguale e senza differenziazioni di trattamento a favore o a sfavore dei singoli interessati (per questo motivo nelle aule di tribunale è presente l’espressione “La legge è uguale per tutti”).

Il principio di eguaglianza ha due profili:

  • il primo è di carattere formale (art. 3, comma 1); “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. La norma fa riferimento ai “cittadini”; ma la Corte costituzionale ha precisato che il principio deve essere rispettato anche nei confronti degli stranieri, soprattutto per quanto riguarda i diritti fondamentali della persona. È un vincolo per il legislatore ordinario, così che tutte le norme di legge siano indirizzate in modo identico a tutti i cittadini; più specificatamente l’individuazione delle categorie di soggetti cui ciascuna norma è destinata deve avvenire in modo non arbitrario. Il criterio alla base di tale ragionamento è: evitare di trattare situazioni omogenee in modo differenziato o situazioni disomogenee in modo eguale. Il controllo del rispetto del principio di eguaglianza è dato alla Corte costituzionale, che può dichiarare l’illegittimità di una legge quando individui una non giustificata differenziazione normativa di situazioni che sono, invece, omogenee o un eguale trattamento nei confronti di situazioni tra loro differenti. Il sindacato della Corte riguarda la valutazione della legittimità delle soluzioni normative ma non può concretizzarsi in un sindacato sui criteri di politica legislativa.
  •  il secondo è di carattere sostanziale (art. 3, comma 2) e impegna la Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È un’indicazione rivolta agli organi statali, spinti a prendere misure normative, amministrative e di politica economica e sociale, tali da attenuare le differenze che in concreto discriminano le condizioni di vita dei singoli soggetti.

L’equità

La norma giuridica contiene, tendenzialmente, la previsione astratta di una situazione-tipo.

Quando il giudice è chiamato a risolvere una fattispecie concreta deve applicare la norma precostituita che egli individua come parametro di riferimento per la situazione sottoposta al suo esame. L’attività di riconduzione del caso concreto a quello generale, previsto da una norma, si chiama sussunzione.

In specifiche ipotesi il giudicante può decidere senza applicare una specifica norma oggettiva, ma in base a criteri fondati sul contemperamento degli interessi contrapposti e sul soddisfacimento di valori di giustizia condivisi dalla collettività sociale, che sembrano più adatti a regolare il caso concreto. Accade che l’applicazione della norma ad un certo caso crei conseguenze che collidono con il sentimento di giustizia (è il caso delle norme che, ad esempio, impongono il rispetto di termini di decadenza o che conducano a un difetto di tutela delle ragioni di una delle parti).

L’equità è stata definita come la giustizia del caso singolo, ma il suo ricorso è un criterio decisionale consentito solo in casi eccezionali. Infatti, l’ordinamento giuridico sacrifica la giustizia del caso singolo alla necessità della certezza del diritto, poiché è pericoloso affidarsi alla valutazione soggettiva del giudice. È fondamentale, invece, che i soggetti possano prevedere le conseguenze dei loro comportamenti.

La legge stabilisce che il giudice, nel decidere le questioni a lui sottoposte, deve seguire le norme del diritto, ovvero quelle dell’ordinamento giuridico dello Stato, e può discostarsene solo nel caso in cui sia la stessa legge ad attribuirgli il potere di decidere secondo equità (art. 113 c.p.c.) e ciò avviene nelle cause di minor valore attribuite al Giudice di Pace o qualora siano state le parti della controversia ad attribuire, concordemente, al giudice il potere di decidere secondo equità (art. 114 c.p.c.). L’autorizzazione delle parti è ammessa se i diritti fatti valere si possano qualificare come “disponibili”. Nelle altre ipotesi è la norma a dover essere applicata, anche se conduca ad un risultato “iniquo” (summum ius, summa iniuria).

Nelle ipotesi eccezionali in cui è ammesso il ricorso all’equità, il giudice non può far prevalere le sue concezioni personali (la c.d. equità cerebrina), ma deve far riferimento a quelle accolte dall’ordinamento o comunque ricercare come si sarebbe comportato il legislatore se avesse potuto prevedere il caso.

Dall’equità come criterio decisorio va differenziata l’equità cd. integrativa; in tal caso è la legge che prevede che il giudice integri o determini, secondo equità, gli elementi di una fattispecie (per esempio nel caso di liquidazione equitativa di un danno difficile da quantificare nel suo esatto ammontare).

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Riferimenti:

  • Torrente, Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, XXV ed.

Fonti normative:

  • Artt. 3 e 97 Costituzione;
  • artt. 113 e 114 c.p.c.