Soggetto e persona
Le situazioni giuridiche soggettive fanno capo a dei “soggetti”.
L’idoneità ad essere titolari di tali situazioni, quindi di essere soggetti di diritto, è la capacità giuridica. Tale attitudine compete alle persone fisiche ma anche agli enti (come ad esempio le associazioni, le fondazioni, le società, gli enti pubblici, ecc.) e, secondo alcuni, anche ad altre strutture organizzate che la legge definisce come autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive. È il caso della “rete” iscritta nella sezione ordinaria del registro delle imprese, o del condominio.
All’interno degli enti, si differenziano gli enti che sono “ persone giuridiche” (come associazioni riconosciute, società di capitali ed enti pubblici) ed “enti non dotati di personalità” (ad esempio le associazioni non riconosciute e le società di persone, ecc.).
Ma entrambi rimangono dei “soggetti” di diritto. I primi hanno autonomia patrimoniale perfetta (delle obbligazioni dell’ente risponde solo l’ente stesso con il proprio patrimonio) i secondi no (in questi casi anche le persone che fanno parte di tali enti rispondono delle obbligazioni dell’ente stesso, è il caso della autonomia patrimoniale imperfetta).
I concetti di “soggetto” e di “persona”, quindi, non coincidono.
Le persone, sia fisiche che giuridiche, sono soggetti, ma non esauriscono quest’ultima categoria, che comprende anche gli enti non dotati di personalità e gli altri centri autonomi di imputazione giuridica.
La capacità giuridica della persona fisica
L’uomo, per il solo fatto della nascita (art. 1, comma 1, c.c.), acquista la capacità giuridica e, quindi, diviene soggetto di diritto. L’art. 22 Cost. specifica in modo solenne il principio secondo cui “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica”.
Pertanto, la capacità giuridica compete indifferentemente a tutti gli esseri umani, a prescindere da distinzioni di sesso o di altro tipo. Questo principio, se pur scontato, è stato recentemente conquistato dalla civiltà giuridica occidentale.
Non solo all’epoca romana, ad esempio, lo schiavo non era “soggetto” di diritto, ma “oggetto” di proprietà del dominus, ma anche nel periodo precedente la rivoluzione francese il diritto differenziava tra soggetti di religione cattolica, soggetti di religione protestante ed ebrei; tra soggetti nobili, soggetti borghesi, soggetti appartenenti al clero, e soggetti servi e tra soggetti maschi e soggetti femmine.
Con la caduta dell’ancien régime si affermerà il principio, di derivazione giusnaturalista ed illuminista, in base al quale “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti” (art. 1 della francese “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 26 agosto 1789).
Così, e in continuità con tale assetto, l’art. 3 della nostra Costituzione proclama che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Sarà poi compito del legislatore eliminare quelle limitazioni formali alla capacità dei cittadini che erano state, in passato, introdotte nell’ordinamento italiano come quelle basate sulla razza: infatti, il R.D.L. 20 gennaio 1944, n. 25, ha abrogato le leggi razziali del periodo 1938-1942.
Successivamente vi sono stati ulteriori provvedimenti come quelli che hanno abolito i divieti di accesso della donna a talune carriere pubbliche, in particolare alla magistratura ordinaria ed amministrativa.
Il superamento delle limitazioni formali della capacità dei cittadini è condizione necessaria, ma non sufficiente, per una corretta attuazione del principio di eguaglianza. L’art. 3, comma 2, Cost. prevede testualmente che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
E, infatti, il legislatore ordinario si è mosso nella direzione indicata dalla Carta costituzionale, ad esempio varando il “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” (D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, successivamente novellato) che non si limita a vietare atti discriminatori in ragione del sesso, ma prevede altresì “azioni positive” volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso e che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo.
La capacità giuridica di diritto privato non compete solo al cittadino, ma anche allo straniero; dispone l’art. 16 disp. prel. al c.c. il principio di reciprocità. Lo straniero è ammesso a godere in Italia dei diritti civili, se e nella misura in cui il cittadino italiano è ammesso al godimento di detti diritti nel Paese di cui lo straniero ha la cittadinanza.
Il riferimento a tale principio non compare più nel D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, laddove prevede che “allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti” (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 286/1998).
Interpretando l’art. 16 disp. prel. c.c., alla luce dei principi di cui agli artt. 2, 3 e 10 Cost. (c.d. interpretazione costituzionalmente orientata), si può concludere che i diritti inviolabili della persona umana sono riconosciuti dal nostro ordinamento in favore di chiunque, cittadino o straniero (anche extracomunitario), indipendentemente dal riconoscimento di un egual diritto in favore del cittadino italiano nello Stato cui appartiene lo straniero.