L'individuo e la tutela internazionale dell'uomo
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L’individuo e la tutela internazionale dell’uomo

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Il sistema di garanzia della CEDU ha subito varie modifiche durante gli ultimi anni. Il sistema è incentrato nella Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha sede a Strasburgo e si compone di un numero di Giudici uguale a quello degli Stati parte della Convenzione. I giudici, che durano in carica 9 anni e non sono rieleggibili, sono indipendenti dagli Stati parti: la Corte è un organo di individui non un organo di Stati. Essa è articolata in un Giudice unico, Comitati di tre giudici, Camere di 7 giudici e Grande Camera di 17 giudici. L’Assemblea plenaria della Corte ha solo compiti amministrativi e non svolge funzioni giudiziarie.

Il Giudice unico opera come una specie di filtro a livello preliminare per i ricorsi presentati da individui e può dichiarare irricevibili questi stessi, la decisione è definitiva. In caso contrario, il ricorso è trasmesso a un Comitato o a una Camera. A sua volta il Comitato, se non respinge il ricorso, può dichiararlo ricevibile e decidere nel merito, qualora la fattispecie sia ricompresa nella giurisprudenza consolidata della Corte, sono i cosiddetti ricorsi ripetitivi. Se la decisione del Comitato non è unanime, il ricorso viene esaminato dalla Camera, che si pronuncia sulla ricevibilità e sul merito. I ricorsi presentati dagli Stati sono esaminati direttamente dalla Camera, che decide sia sulla ricevibilità sia sul merito.

Una volta considerato ricevibile il ricorso, la Camera esamina l’affare in contraddittorio tra le parti e si mette a disposizione per arrivare a una soluzione amichevole. Se l’intesa è raggiunta, i termini della soluzione adottata costituiscono l’oggetto di una decisione e il ricorso è stralciato dal ruolo; se, al contrario, non si raggiunge una conciliazione la Camera decide nel merito con sentenza. Qualora l’affare non sia portato innanzi alla Grande Camera nei tre mesi successivi alla data della sentenza, la sentenza della Camera diviene definitiva. L’affare può essere portato alla Grande Camera su iniziativa della Camera o di una parte, che sia uno Stato o un individuo, nel caso in cui venga sollevata una questione sull’interpretazione o sull’ applicazione della Convenzione di particolare gravità.

La sentenza della Grande Camera è definitiva, non è un vero e proprio appello in quanto alla Grande Camera partecipano il Presidente della Camera che ha emanato la sentenza e il giudice avente la nazionalità dello Stato accusato di aver violato la Convenzione. La sentenza definitiva della Corte è obbligatoria. Lo Stato membro si impegna a eseguire la sentenza della Corte, quest’ultima non ha forza esecutiva all’interno degli ordinamenti statali. È sentenza di mero accertamento, che si limita a statuire sulla conformità della misura presa con la Convenzione. Per cui lo Stato è libero di scegliere le misure ritenute opportune per dare esecuzione alla sentenza. Tra l’altro, la Corte non accerta l’astratta conformità della legislazione nazionale alle disposizioni della Convenzione, ma esamina la conformità alla Convenzione della concreta applicazione della legislazione e dichiara se ci sia stata violazione della Convenzione. La sentenza della Corte può provocare l’abrogazione di una legge nazionale, poiché lo Stato, per evitare di essere di nuovo chiamato in causa dinanzi alla Corte, può disporre l’abrogazione della normativa in contrasto con la Convenzione europea.

Ad oggi la Corte non si limita a stabilire se le misure adottate dallo Stato parte abbiano violato la Convenzione, ma indica gli ostacoli che negli ordinamenti interni impediscono di evitare una violazione della Convenzione. Qualora venga constatato che ha avuto luogo una violazione della Convenzione e il diritto interno dello Stato che ha violato la Convenzione non consente di rimediare a tutte le conseguenze dell’illecito, la Corte può accordare alla parte lesa una soddisfazione equa, ovvero una somma di denaro. Trattasi di un risarcimento del danno morale e materiale e occorre provare il nesso di causalità tra la violazione della Convenzione e il danno subito. L’ammontare è deciso secondo equità, tale somma coprirà anche le spese processuali sopportate dalla parte vittoriosa. Spetta al Comitato dei Ministri sorvegliare l’esecuzione della sentenza, a tal fine, la Corte trasmette la sentenza al Comitato.

Una persistente inesecuzione della sentenza può condurre a una sospensione dello Stato dal Consiglio d’Europa, trattasi di giudizio per inadempimento. Qualora lo Stato soccombente non adempia il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa può portare la questione dinanzi la Corte. Se viene constatato che lo Stato non ha eseguito la sentenza, la questione viene di nuovo rimessa al Comitato dei Ministri che deciderà le misure da prendere. Tale Comitato è anche legittimato a chiedere alla Corte l’interpretazione della sentenza. I ricorsi presentati alla Corte Europea sono di due tipi: individuali o statali. La possibilità per un individuo di presentare un ricorso contro lo Stato sotto la cui giurisdizione si trova è un fatto rivoluzionario. Il ricorso può essere presentato da una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di individui. Condizione essenziale è che il ricorrente sia vittima di una violazione della CEDU. Comunque  la Corte ha dato una interpretazione estensiva della nozione di vittima.

Uno Stato membro può presentare un ricorso contro un altro Stato membro accusandolo di aver violato la CEDU, non è necessario che lo Stato sia materialmente danneggiato dalla violazione, in quanto la Convenzione istituisce obblighi erga omnes tra gli Stati partecipanti.

Condizioni di ricevibilità dei ricorsi

Spesso i ricorsi individuali sono respinti già nella fase della ricevibilità. Pertanto è necessario distinguere tra condizioni comuni ai ricorsi individuali e statali e condizioni che hanno per oggetto solo i ricorsi individuali. Condizione comune ai ricorsi individuali e statali è l’esaurimento dei ricorsi interni, cioè devono essere esauriti tutti i mezzi di giudizio interni.

Il ricorso deve essere presentato, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data in cui la decisione interna è diventata definitiva. Nel caso in cui l’ordinamento interno non abbia un sistema di ricorsi effettivi, la condizione del previo esaurimento deve essere considerata assolta. Per quanto riguarda le condizioni specifiche ai ricorsi individuali, il ricorso è irricevibile quando: è anonimo, è identico a un altro già esaminato dalla Corte o già proposto a un’altra istanza internazionale, non è compatibile con la Convenzione (ad esempio non riguarda uno dei diritti garantiti dalla CEDU), è manifestamente infondato (ad esempio nessuna prova corrobora il ricorso) o abusivo (ad esempio il ricorso è volto a infamare o ingiuriare lo Stato). La Corte ha dato una interpretazione estensiva del concetto di ricorso abusivo.

Ultimo caso è quando il ricorrente non ha subito un pregiudizio significativo, tranne che la salvaguardia dei diritti dell’uomo non richieda un esame nel merito e purché la questione sia stata adeguatamente esaminata dal tribunale nazionale competente. Nel procedimento innanzi la Corte è ammesso l’intervento del terzo. Lo Stato, il cui cittadino sia parte di un  ricorso alla Corte, può presentare osservazioni scritte e partecipare alle udienze. Ovviamente  si presuppone che lo Stato in questione sia terzo, cioè che il ricorso individuale sia stato presentato nei confronti di uno Stato diverso da quello nazionale. È prevista anche la figura dell’amicus curiae.

Nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia, il Presidente della Corte può invitare ogni altro Stato membro e ogni altra persona interessata a presentare osservazioni scritte o a partecipare alle udienze. La Corte può pronunciare pareri consultivi su richiesta del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. I pareri non hanno effetti giuridici vincolanti, sono resi dalla Grande Camera e hanno per oggetto questioni giuridiche relative all’interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli. La richiesta di parere può arrivare anche dal giudice nazionale in merito a una causa pendente innanzi lo stesso. Anche in questo caso il parere non è vincolante. La Corte può indicare misure cautelari nell’interesse delle parti, ma esse non sono vincolanti. La Corte oggi si trova invasa da molti ricorsi. Taluni Stati, come l’Italia, hanno voluto porre rimedio a questa situazione.

La legge Pinto ha cercato di arginare la valanga di ricorsi presentati a Strasburgo da ricorrenti italiani a causa della durata eccessiva del processo e quindi della violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Prima di ricorrere a Strasburgo l’attore dovrebbe inoltrare una domanda alla Corte d’Appello, lamentando la durata eccessiva del processo. Tale legge si è rilevata inefficace, infatti sono aumentati i ricorsi per ottenere l’equa soddisfazione. L’Iter non è particolarmente veloce e i risarcimenti hanno creato un accumulo del debito da parte dell’erario. La legge Pinto è stata modificata con il D. L. del 2012, secondo cui il ricorso può essere presentato alla Corte di Appello contro il ministro della Giustizia per i procedimenti dinanzi al giudice ordinario; contro quello della Difesa per i procedimenti dinanzi al giudice militare; contro quello dell’Economia e delle Finanze per i procedimenti tributari e contro il presidente del Consiglio dei Ministri in tutti gli altri casi. Il ricorso deve essere presentato entro sei mesi dal provvedimento definitivo (non nel corso del giudizio) ed è modellato su quelli impegnati per ottenere un decreto ingiuntivo. Sul ricorso decide con decreto entro 30 giorni il Presidente della Corte d’Appello.

Se il ricorso è accolto, l’equa soddisfazione viene predeterminata tenendo conto della durata irragionevole del processo, che non dovrà superare i 6 anni. La somma liquidata consiste in un ammontare tra €500 e €1500 per ciascun anno eccedente la ragionevole durata del processo. L’indennizzo non è ammesso nel caso in cui il ricorrente ha tenuto una condotta non diligente o dilatoria. Ad oggi permangono i ritardi nel versamento degli indennizzi e critiche alle modifiche apportate nel 2012.

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L’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nell’ordinamento italiano

In Italia i tentativi per legiferare sulla esecuzione delle sentenze della CEDU non sono andati a buon fine. L’unico provvedimento di rilievo è quello che riguarda le disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della CEDU del 2006. Si attribuisce al Presidente del Consiglio il compito di promuovere gli adempimenti conseguenti alle sentenze della Corte EDU emanate nei confronti dell’Italia. Tali sentenze devono essere comunicate alle Camere, ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari. Inoltre, il presidente del Consiglio deve presentare una relazione annuale al Parlamento sullo stato di esecuzione delle sentenze della Corte.

Il D.P.C.M. del 2007 ha disposto che gli adempimenti conseguenti alla pronuncia della Corte siano curati da  un dipartimento della Presidenza del Consiglio.

L’esecuzione delle sentenze della Corte europea che abbiano accertato una violazione delle regole sul giusto processo, di cui all’articolo 6, può essere predisposta consentendo la revisione della sentenza del giudice italiano passata in giudicato. A tal proposito dovrebbe essere modificato l’articolo 630 c.p.p. per introdurre come motivo di revisione del giudicato una sentenza della Corte EDU che abbia accertato una grave violazione della Convenzione.

Di fronte all’inerzia del legislatore la nostra giurisprudenza ha tenuto un atteggiamento conservatore. La Cassazione ha escluso che le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo abbiano efficacia diretta nell’ordinamento italiano. Esse non potrebbero essere paragonate alle sentenze pronunciate dalla Corte di giustizia dell’Unione europea a titolo pregiudiziale, che vincolano espressamente il giudice del rinvio. Non ci sarebbe nel sistema delle fonti uno spunto per assicurare la diretta vincolatività delle sentenze della Corte per il giudice interno.

Successivamente ci sono state delle aperture. Si attribuisce al presidente del Consiglio il compito di promuovere gli adempimenti di competenza governativa per ottenere una esecuzione delle pronunce della Corte, anche se ciò dovesse determinare il riesame o la riapertura del procedimento e la messa in discussione del principio di intangibilità del giudicato. La Corte di Cassazione ha rimosso l’efficacia di giudicato di una sua precedente sentenza resa a seguito di processo considerato non equo e ha disposto la parziale riapertura del processo. La Cassazione ha affermato che il giudice dell’esecuzione deve considerare inefficace il titolo esecutivo formato in seguito a un processo dichiarato non equo. Questo nuovo indirizzo ha tardato ad affermarsi. Prova ne è la sentenza della Corte Costituzionale in merito a un procedimento incidentale di costituzionalità dell’articolo 630, primo comma, c.p.p. La Corte ha specificato che tale disposizione, mentre prevede come motivo di revisione l’inconciliabilità tra due giudicati italiani, non prevede la contraddizione tra sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e le sentenze del giudice italiano. La questione di costituzionalità è stata dichiarata infondata dalla Corte.

Una apertura si ebbe nel 2011 con una sentenza della Corte Costituzionale in cui si specifica al legislatore la via da seguire per colmare la lacuna esistente, cioè la riapertura del giudicato, che si ponga in contrasto con una sentenza della Corte di Strasburgo. Pertanto la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo. Tuttavia, in mancanza di un intervento del legislatore, che non si è ancora pronunciato, è difficile che il giudice comune possa supplire in modo compiuto all’inerzia legislativa.

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Fonti normative:

  • Convenzione contro la schiavitù firmata a Ginevra nel 1926;
  • artt. 55, 56 Carta delle Nazioni Unite;
  • Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948;
  • Convenzione sullo status di rifugiato del 1951;
  • Patto sui diritti civili e politici art. 1;
  • Patto sui diritti economici, sociali e culturali art.1;
  • Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali artt. 6, 7, 8, 10, 11, 12;
  • Patto addizionale alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali art. 1
  • l. 24 marzo 2001 n. 89 (cd. legge Pinto);
  • art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
  • D.P.C.M. del 2007;
  • l. 22 giugno 2012;
  • art. 630 c.p.p.
  • Carta dei diritti fondamentali dell’Ue del 2000;
  • art. 6 Trattato UE;
  • Documento di Copenaghen del 1990;
  • Documento di Mosca del 1991;
  • Conferenza del Vertice di Helsinki del 1992;
  • Convenzione di Stoccolma del 1992;
  • Risoluzione n.1541 dell’Assemblea Generale;
  • Accordo di Londra del 1945;
  • Conferenza di Kampala del 2010;
  • Convenzioni di Ginevra del 1949;
  • art. 3 Statuto del Tribunale per la ex Jugoslavia