L'individuo e la tutela internazionale dell'uomo
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L’individuo e la tutela internazionale dell’uomo

L’Unione Europea

All’origine i trattati relativi alle Comunità europee non facevano riferimento ai diritti umani. La comunità aveva una chiara impronta economica. Anche nel settore dei diritti economici e sociali i trattati comunitari non contenevano riferimenti ai diritti umani. Lo stesso diritto di proprietà non era tutelato come diritto individuale.

Questo tipo di tutela si è affermata in via giurisprudenziale ed è stata consacrata nelle disposizioni convenzionali in un tempo successivo. La Corte di Giustizia della Comunità Europea ha affermato più volte la protezione di tali diritti come obiettivo della comunità. La Corte ha affermato che tali principi possono essere ricavati dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e dai trattati internazionali sui diritti dell’uomo, di cui gli Stati membri erano parti, in particolare la CEDU. Veniva individuata quindi una doppia fonte: una interna ovvero la costituzione di ogni singolo Stato membro e una esterna, i trattati in materia di diritti dell’uomo. Il livello di protezione di tali diritti ha avuto evoluzione positiva.

Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la situazione è la seguente. Il Trattato UE consacra come valori fondanti dell’Unione il rispetto della dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle persone appartenenti a minoranze. I diritti fondamentali della CEDU e quelli degli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali. Parlamento europeo, Consiglio e Commissione avevano proclamato solennemente, nel 2000, la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, contenente un catalogo esteso di diritti civili, politici, economici, sociali e culturali. Tale strumento, di soft-law, è diventato vincolante col Trattato di Lisbona che non incorpora formalmente la Carta ma attribuisce alla stessa valore giuridico di trattato. Il rispetto dei principi e la loro promozione sono requisiti per l’adesione di un nuovo Stato europeo all’UE. La violazione grave e persistente di questi principi può essere causa di sospensione della qualità di membro dell’Unione.

La protezione dei diritti dell’uomo ispira anche la politica internazionale dell’Unione, sia per quanto riguarda la politica estera sia per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo. Negli accordi di cooperazione allo sviluppo stipulati tra Unione e terzi viene inserita una clausola, clausola di condizionalità, che condiziona il mantenimento in vigore dell’Accordo al rispetto dei diritti dell’uomo.

L’Unione è diventata parte della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Si tratta del primo accordo internazionale a tutela dei diritti umani a vincolare l’Unione Europea. La competenza della Corte di giustizia si è estesa alla tutela di questi diritti, ma solo in relazione alle attività delle istituzioni e non a quelle degli Stati membri. Un atto dell’Unione può essere impugnato, nei modi e nei termini stabiliti dalla Unione europea, dinanzi alla Corte di giustizia per violazione dei diritti fondamentali dell’uomo. Non potrà essere presentato ricorso contro un provvedimento di diritto interno dinanzi alla Corte di giustizia, poiché questo viola i diritti dell’uomo e tanto meno si potrà sindacare la compatibilità con la Convenzione europea di diritti dell’uomo di una disciplina nazionale, che esula dall’ambito del diritto dell’Unione. Tale ripartizione di competenze dovrebbe essere idonea a scongiurare eventuali conflitti di competenza tra Corte di giustizia e Corte EDU. La Corte europea dei diritti dell’uomo si è dichiarata competente a giudicare dei provvedimenti interni, attuativi di atti comunitari, contrari alla CEDU. Peraltro la Corte EDU ha affermato che l’ordinamento comunitario garantisce una protezione dei diritti fondamentali equivalente a quella stabilita dalla CEDU. Si tratta, tuttavia, di una presunzione relativa, richiedendo accertamento concreto sul singolo caso di specie. Inoltre, potrà essere esperito un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per far constatare l’incompatibilità di una normativa interna in contrasto con il diritto dell’Unione, anche qualora tale contrasto abbia per oggetto la violazione dei diritti dell’uomo, così come incorporati nell’ ordinamento dell’Unione.

L’articolo 6 del Trattato UE dispone che l’Unione aderisca alla CEDU anche se tale adesione non è completamente avvenuta. Secondo alcuni, qualora tale adesione dovesse concretizzarsi potrebbero ampliarsi i potenziali conflitti tra Corte di Giustizia dell’UE e Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa

La questione dei diritti dell’uomo, intesi in senso ampio, è di importanza decisiva nello OSCE, la quale ha un proprio fondamento nel soft law. Il sistema di protezione dei diritti dell’uomo in questo contesto consiste, circa gli strumenti e procedure previsti: la dimensione umana, il meccanismo della dimensione umana, l’Alto commissario per le minoranze nazionali, le missioni di lunga durata e la Corte di arbitrato e conciliazione.

Nel sistema OSCE la tutela dei diritti umani si configura come dimensione umana. Si tratta di una creazione avvenuta nell’ambito dell’OSCE. Più precisamente, è un’invenzione degli Stati membri dell’Unione europea. La dimensione umana era un modo per far accettare ai paesi dell’Est che i diritti umani fossero inseriti nel contesto della Conferenza sulla sicurezza e cooperazione in Europa. Attualmente l’espressione dimensione umana è più ampia di quella “diritti dell’uomo”, poiché è applicabile non solo ai diritti dell’uomo in senso stretto, ma anche ai rapporti tra le istituzioni: nozione di democrazia, istituzioni democratiche e stato di diritto. Il catalogo di diritti è contenuto nel Documento di Copenaghen, del 1990, che elenca anche i diritti da accordare alle minoranze nazionali. Ulteriori progressi sono stati fatti con il documento di Mosca del 1991.

La nozione di dimensione umana quindi è più di quella di diritti umani, poiché copre anche i rapporti tra le istituzioni. Gli impegni OSCE sono di natura politica, mentre i diritti dell’uomo sono tutelati a livello di strumenti giuridicamente vincolanti, anche se non mancano strumenti relativi ai diritti umani appartenenti al soft law. Tali impegni sono vincolanti per gli Stati non appena il relativo documento è stato adottato; non c’è bisogno di uno strumento di ratifica, per cui si evita il relativismo convenzionale. Tutti gli Stati OSCE sono obbligati. Gli impegni OSCE non comportano un processo formale di esecuzione negli ordinamenti interni, a differenza dei trattati sui diritti umani.

La dimensione umana è da inquadrare nel concetto di sicurezza cooperativa ed è basata sulla prevenzione di conflitti, il disarmo e sulla democratizzazione delle forze armate.

Gli individui, nel quadro OSCE, non possono mettere in moto meccanismi di tutela dei loro diritti. I meccanismi sono a livello interstatale, mentre nel campo dei diritti umani agli individui è riconosciuto un potere di ricorso alle istanze internazionali. Nel quadro OSCE non si applica il previo esaurimento dei ricorsi interni.

Nonostante queste differenze ci sono anche delle similitudini che consistono nei sistemi di garanzia predisposti per entrambi e sul fatto che sia le questioni relative alla dimensione umana sia quelle sui diritti dell’uomo non fanno parte del dominio riservato degli Stati. Gli Stati partecipanti hanno dichiarato che gli impegni assunti nel campo della dimensione umana del OSCE sono questioni di diretto e legittimo interesse per gli Stati partecipanti e non rientrano esclusivamente negli affari interni dello Stato interessato. Il meccanismo della dimensione umana è una procedura volta ad assicurare il rispetto delle disposizioni sui diritti umani contenute nei documenti del OSCE. Il meccanismo è strutturato in quattro fasi: denuncia dell’inosservanza da parte di uno Stato partecipante nei confronti di un altro, risposta dello Stato richiesto ed eventuale incontro a livello bilaterale, trasmissione della questione all’attenzione di tutti gli Stati partecipanti, discussione della questione in occasione delle riunioni della conferenza sulla dimensione umana del OSCE. La procedura è aperta a tutti gli Stati partecipanti. L’individuo non ha alcun potere di azionare tale meccanismo, ma con la riunione di Mosca si è perfezionata la procedura tramite la partecipazione di un terzo. Si sono accorciati i tempi per l’espletamento del meccanismo ed è stata definita una lista di esperti da cui vengono estratti i nomi per la composizione dei due gruppi di persone che intervengono nella procedura: esperti e rapporteurs. Si è data ampia applicazione a questo meccanismo durante la Guerra Fredda. Con l’istituzione del Consiglio Permanente, l’organo di consultazione politica dell’OSCE, il meccanismo ha perso importanza, poiché le discussioni relative all’applicazione dei diritti umani da parte dei Paesi partecipanti avvengono in tale organismo.

L’Alto Commissario per le minoranze nazionali è stato definito nella Conferenza del Vertice di Helsinki del 1992. Esso ha sede all’Aia, è nominato per consensus dal Consiglio dei Ministri ed ha una funzione indipendente e dinamica.

È uno strumento di prevenzione dei conflitti per quanto più possibile nella fase iniziale. Interviene quando le tensioni legate alle questioni minoritarie minacciano la pace e la sicurezza internazionale. L’Alto Commissario non interviene in relazione a casi individuali, ma esplica le sue funzioni quando vi sono tensioni concernenti una minoranza nazionale, potenzialmente idonee a trasformarsi in un conflitto. Egli deve astenersi dall’intervenire quando il conflitto comporti la commissione di atti organizzati di terrorismo. L’intervento presuppone la violazione delle disposizioni OSCE sulle minoranze. Pertanto, Egli  opera con il preallarme e con l’azione preventiva. Può intervenire in loco, con il consenso dello Stato territoriale. Una volta in territorio altrui, può intrattenere rapporti con le autorità governative, i rappresentanti delle minoranze e le autorità non governative. Alla fine della missione viene redatto un rapporto, da trasmettere al Presidente in carica dell’OSCE, che resta strettamente confidenziale.

Nella pratica, il ruolo dell’Alto commissario si è trasformato, Egli svolge un ruolo di mediatore.

Le missioni di lunga durata sono state create dalla prassi. Mandato, consistenza e durata, di regola sei mesi rinnovabili, sono stabiliti dagli organi politici del OSCE. È uno strumento molto flessibile, per cui possono compiere molteplici compiti, dal monitoraggio del peace-keeping alla sorveglianza sull’attuazione delle disposizioni sui diritti umani. Tra l’altro, queste missioni espletano un ruolo di coordinamento con altre organizzazioni internazionali.

La Corte di arbitrato e conciliazione è stata istituita dalla convenzione di Stoccolma del 1992, ma non tutti gli Stati membri del OSCE vi hanno aderito. La sua competenza ha per oggetto le controversie che possono insorgere tra gli Stati membri dello OSCE, incluse quelle relative alla tutela di diritti umani. Ha sede a Ginevra e ha una lista di conciliatori e arbitri. Mentre la Corte di arbitrato applica solo il diritto internazionale quella di conciliazione applica non solo il diritto internazionale, ma anche gli impegni OSCE. Si tratta di conciliazione obbligatoria, nel senso che può essere messa in moto ad iniziativa di una parte.

L’OSCE è in crisi, avendo ormai praticamente esaurito il suo compito come strumento di confronto e cooperazione tra Europa dell’Ovest (regimi liberali), quella dell’Est (regimi comunisti) e i neutrali e non allineati europei. L’espansione del Consiglio d’Europa, dell’Unione Europea e della NATO hanno sottratto rilevanza politica all’organizzazione.

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Il principio di autodeterminazione dei popoli

Limiti incisivi alla libertà dello Stato all’interno del proprio ordinamento derivano dal principio di autodeterminazione dei popoli. Si distingue tra autodeterminazione interna e autodeterminazione esterna: la prima, conferisce ad ogni popolo il diritto di avere un ordinamento rappresentativo e democratico ed investe i rapporti tra popolo e organizzazione statale, quella esterna, invece, comporta il diritto di ogni popolo ad avere la forma statale che desidera nell’ambito della comunità internazionale.

L’indipendenza non è il solo modo di realizzare l’autodeterminazione esterna. La risoluzione 1541 dell’Assemblea Generale ha specificato altri tre modi: la nascita di uno Stato indipendente, la libera associazione a uno Stato indipendente e l’integrazione in uno Stato indipendente. Inoltre, viene aggiunto un quarto modo ovvero l’acquisizione di ogni altro status politico liberamente deciso dal popolo. Quest’ultimo modo potrebbe nascondere le mire espansionistiche dello Stato che governa il popolo titolare del diritto all’autodeterminazione. Per questo l’integrazione, come ha precisato la Corte internazionale di giustizia, deve essere il risultato della volontà del popolo liberamente espressa, con un procedimento democratico condotto tramite il suffragio universale.

Buona parte della dottrina considera il principio di autodeterminazione dei popoli come appartenente allo jus cogens. La Corte Internazionale di Giustizia, nel caso di Timor orientale, pur non pronunciandosi sulla natura imperativa del principio, ha affermato che esso è uno dei principi essenziali del diritto internazionale contemporaneo e ne ha statuito la natura di norma istitutiva di obblighi erga omnes. Il relativo diritto è esigibile, pertanto, da parte di tutti i membri della comunità internazionale.

Il diritto all’autodeterminazione deve essere contemperato con il principio dell’integrità territoriale degli Stati.

Il principio di autodeterminazione dei popoli è caratterizzato da: irretroattività, universalità e permanenza. Al di fuori del contesto coloniale, dove il principio è sorto, l’autodeterminazione non è retroattiva. Quindi il principio non si applica in Europa ai territori occupati con la forza prima della seconda guerra mondiale. Il principio ha portata universale, cioè si applica a tutti i popoli e non solo a quelli sotto dominazione coloniale. Quanto detto è confermato da strumenti di soft law, come la Dichiarazione sulle relazioni amichevoli o i principi stabiliti ad Helsinki dalla CSCE. Anche la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, che ha valore di trattato, conferisce il diritto in esame a tutti i popoli, specificando che quelli oppressi o sotto dominazione coloniale hanno il diritto di liberarsi dalla dominazione mediante tutti i mezzi ammessi dalla comunità internazionale. Infine, il principio di autodeterminazione ha carattere permanente, nel senso che non si consuma una volta che viene esercitato.

L’autodeterminazione è un diritto che fa capo ai popoli sotto dominazione coloniale o razzista. Assumono quindi un nuovo significato le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite in cui il principio di autodeterminazione è specificato. Quando la Carta fu redatta l’autodeterminazione era equivalente a non interferenza negli affari interni di uno Stato. Oggi le norme in questione assumono un significato diverso. La Corte suprema del Canada, nel 1998 nel pronunciarsi sulla pretesa del Québec di secedere dalla madrepatria, ha affermato che l’autodeterminazione spetta alle ex colonie, ai popoli assoggettati ad una dominazione militare straniera e ad un gruppo sociale ben definito che si vede rifiutare un accesso effettivo alle autorità pubbliche, rivolto ad ottenere il suo sviluppo politico, economico, sociale e culturale. In uno Stato federale, in cui coesistono più popoli, l’autodeterminazione, anche esterna, potrebbe essere esercitata da quel popolo che sia discriminato nei termini anzidetti e non si senta quindi rappresentato dal governo al potere. Le minoranze non sono popoli e non sono titolari di tale diritto, inteso in senso esterno. Per le minoranze, la dimensione interna dell’autodeterminazione può essere attuata mediante la concessione dell’autonomia. La difficoltà di distinguere tra popolo e minoranze rende problematica l’applicazione di queste nozioni.

La Corte Internazionale di Giustizia non si è pronunciata sulla cosiddetta remedial secession, cioè sull’autodeterminazione esistente al di fuori dell’ambito coloniale, nel caso in cui un popolo sia oggetto di discriminazione da parte del governo al potere, limitandosi a registrare la differenza di opinioni di coloro che erano intervenuti nel procedimento.

La tematica dei popoli indigeni stanziati in Stati indipendenti, ad esempio il Canada, è da inquadrare nell’ambito della protezione delle minoranze piuttosto che in quella dell’autodeterminazione. Si tratta di tutelare l’identità dei popoli, impedendone l’assimilazione e, nello stesso tempo, di garantire loro diritti collettivi. La questione dei popoli indigeni è oggetto di discussione da molto tempo alle Nazioni Unite. Si è riconosciuto il diritto di autodeterminazione ai popoli indigeni precisando tuttavia che la sua attuazione comporta autonomia e autogoverno. Quindi si tratta di autodeterminazione interna e non di autodeterminazione esterna. La problematica dei popoli indigeni investe la proprietà della terra e il diritto sulle risorse naturali, questioni estranee al diritto delle minoranze.

Il mantenimento con la forza o il ristabilimento di una dominazione coloniale sono contrari al principio di autodeterminazione dei popoli. La decolonizzazione, che ha visto più che triplicare i popoli della comunità internazionale, è ormai solo un fatto storico. Il principio di autodeterminazione dei popoli pone limiti alla condotta degli Stati e protegge quei popoli stanziati in Stati che vivono una situazione di anarchia, i cosiddetti failed states, dove non esiste un governo effettivo che abbia autorità sull’intero paese, è il caso della Somalia. Altre potenzialità del principio in esame vanno ricercate in relazione all’uso della forza. Anche se questo è conforme alle Nazioni Unite, ad es. legittima difesa, il popolo il cui Stato è stato debellato resta al riparo del principio di autodeterminazione.

I Crimini Internazionali

I crimini internazionali sono attività individuali lesive di beni particolarmente protetti dal diritto internazionale. La gravità della lesione è tale che essa arreca un grave pregiudizio all’intera comunità, con la conseguenza che tutti gli Stati sono in linea di principio interessati alla repressione di tali crimini. Tale interesse diventa rilevante quando la commissione del crimine si concretizza nella violazione di norme istitutive di obblighi erga omnes, come il divieto di genocidio. I crimini internazionali possono essere commessi da semplici individui oppure da individui organi, è il caso dei crimini di guerra commessi in genere da un organo belligerante. Gli atti lesivi restano in qualche modo propri degli individui che li hanno commessi e il diritto internazionale autorizza la loro repressione senza contare la qualità di organi statali degli individui che l’hanno compiuto, viene meno l’immunità funzionale. Sono punibili le persone che commettono genocidio, sia che rivestono la qualità di governanti, sia quella di funzionari pubblici, sia quella di persone private. L’attuale distinzione dei crimini internazionale in tre categorie è fatta risalire all’accordo di Londra del 1945, istitutivo del Tribunale di Norimberga. Erano distinti in crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La distinzione è oramai accolta dalla maggior parte della dottrina e trova conferma nella prassi internazionale e nelle successive codificazioni.

Appartiene alla categoria dei crimini contro la pace l’aggressione. Ovvero la progettazione, preparazione, scatenamento e continuazione di una guerra di aggressione o di una guerra in violazione di trattati, ovvero una partecipazione a un piano concentrato o ad un complotto per commettere uno qualsiasi di questi atti. Costituisce aggressione: l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, integrità territoriale o indipendenza politica di un altro Stato. È difficile stabilire se quanto specificato sia diritto internazionale generalmente riconosciuto. Di sicuro è un utile strumento per determinare, nel caso concreto, l’esistenza eventuale di un atto di aggressione. La determinazione circa la commissione di un atto di aggressione spetta al Consiglio di Sicurezza e quanto sopra detto serve soltanto da guida.

La conferma che la guerra di aggressione sia un crimine contro la pace è data da due risoluzioni dell’Assemblea Generale. Lo Statuto della Corte penale internazionale non definisce l’aggressione. La definizione è stata operata dalla conferenza di Kampala del 2010, con un emendamento allo Statuto della Corte. Viene così definita l’aggressione come la pianificazione e preparazione scatenamento o esecuzione da parte di una persona, che sia nella posizione di esercitare un controllo o di dirigere l’azione  politica e militare dello Stato, di un atto di aggressione che, per carattere, gravità e portata, costituisca violazione manifesta della Carta delle Nazioni Unite. Da ciò si ricavano due conseguenze: l’aggressione, come crimine, non può essere costituita da una minore violazione della norma che vieta l’uso della forza, inoltre è un crimine di leadership, i cui autori possono essere solo coloro che abbiano effettivamente il controllo di uno Stato.

I crimini di guerra consistono in violazioni gravi delle leggi e consuetudini di guerra. Ne deriva che una violazione qualsiasi delle norme di diritto internazionale bellico non è crimine internazionale. Deve trattarsi di violazione qualificata di beni protetti dal diritto bellico, che può avere per oggetto sia norme che disciplinano la condotta delle ostilità, ad es. l’uso di armi vietate, sia norme a carattere più squisitamente umanitario, ad esempio la presa di ostaggi. I crimini di guerra possono essere commessi anche nel quadro della guerra marittima o di quella aerea.

L’accordo di Londra del 1945 qualifica come criminali di guerra i seguenti reati: uccisione, maltrattamenti o deportazione per costringere a compiere lavori forzati, uccisione o maltrattamento di prigionieri di guerra o di persone che si trovano in mare, l’esecuzione di ostaggi, il saccheggio di beni pubblici o privati. L’esemplificazione però non ha carattere esaustivo, più precise sul punto sono le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, che considerano infrazioni gravi, da cui discende la responsabilità penale individuale, gli atti commessi contro le persone protette che sono sotto il potere del nemico: malati, prigionieri, naufraghi, civili dei territori occupati. Il Protocollo addizionale del 1997 qualifica infrazioni gravi quelle violazioni commesse ai danni di persone cadute nelle mani del nemico e le gravi violazioni commesse nel campo di battaglia, ad esempio l’attacco a località indifese.

Un elenco di crimini internazionali è altresì contenuto nell’articolo 3 dello Statuto del Tribunale per la ex Jugoslavia. Questo elenco non è tassativo, l’elenco invece predisposto dallo Statuto della Corte penale internazionale è tassativo, ai fini della giurisdizione della Corte. I crimini di guerra erano crimini internazionali tipici dei conflitti armati internazionali. Fino a poco tempo fa la dottrina si chiedeva se un crimine di guerra potesse essere compiuto nel corso di un conflitto armato non internazionale. Oggi è un fatto acquisito che tali crimini possono essere compiuti anche in occasione di un conflitto interno, come si evince dalla giurisprudenza del Tribunale per la ex Jugoslavia. Lo Statuto della Corte penale internazionale identifica come crimini internazionali alcune violazioni del diritto umanitario commesse in occasione di un conflitto armato interno. L’accordo di Londra del 1945 considera crimini contro l’umanità lo sterminio o la riduzione di popolazioni in schiavitù. Tali crimini sono dichiarati punibili in quanto perpetrati in esecuzioni dei crimini di guerra o dei crimini contro la pace, tale connessione non ha più ragione di essere. Questo perché i crimini contro l’umanità, in quanto offensivi dell’intero genere umano, hanno autonoma configurazione nell’ordinamento internazionale. Appartiene alla categoria dei crimini contro l’umanità il genocidio, benché in alcuni atti sia tenuto ben distinto dai crimini contro l’umanità. Il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è crimine internazionale e anche imprescrittibile, così come definito nel quadro Onu e nella Convenzione europea sull’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità. Gli Statuti dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda indicano una serie di atti che costituiscono crimini contro l’umanità, qualora diretti contro la popolazione civile. Essi sono l’omicidio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, l’espulsione, l’imprigionamento, la tortura, lo stupro eccetera. Deve trattarsi di atti compiuti su vasta scala e in maniera diffusa, che coinvolgono più autori e più vittime. Stesse considerazioni valgono per lo Statuto della Corte penale internazionale che qualifica come crimini contro l’umanità una serie di atti, tra cui omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, qualora commessi nell’ambito di un attacco a largo raggio. Tra i crimini internazionali viene fatta rientrare la pirateria iuris gentium. Essa consiste nella perpetrazione di atti di violenza, detenzione e depravazione commessi, per fini privati, da equipaggi o passeggeri di una nave privata contro un’altra nave o aeromobile. Il crimine per essere considerato pirateria deve essere commesso in alto mare o nello spazio aereo sovrastante o in un altro luogo diverso dall’altro mare, non soggetto alla giurisdizione di alcuno Stato. Non costituisce pirateria un atto commesso da una nave da guerra contro una nave privata. A causa della scarsa rilevanza del crimine nell’attuale fase delle relazioni internazionali, la pirateria non è stata inserita nello Statuto della Corte penale internazionale.

Dai crimini internazionali occorre distinguere i crimini di diritto interno internazionalmente imposti. Si  tratta di reati normalmente previsti dagli ordinamenti interni che, al contrario dei crimini internazionali, non sono configurati autonomamente dall’ordinamento internazionale. Se non che la loro Commissione investe più Stati oppure arreca pregiudizio a più Stati, pertanto gli Stati pongono in essere strumenti per la cooperazione giudiziaria che viene attuata mediante l’estradizione. Gli Stati si obbligano a punire i colpevoli o a consegnarli allo Stato che ha titolo di giurisdizione.

Controverso è se il terrorismo possa essere qualificato come crimine internazionale. Le convenzioni finora stipulate hanno per oggetto singoli atti di terrorismo, che vengono repressi obbligando gli Stati a qualificarli come crimini nella loro legislazione interna. Manca però, a livello di diritto convenzionale, una definizione generale. Uno dei punti più controversi riguarda lo status dei movimenti di liberazione e il ricorso alla violenza nei territori sotto occupazione. La tesi secondo cui il terrorismo costituisce un crimine internazionale è stata affermata dalla camera d’Appello del Tribunale speciale per il Libano, nel 2011.

La repressione dei crimini internazionali può avvenire ad opera dei Tribunali internazionali oppure ad opera dei Tribunali interni. Il concorso tra Tribunali internazionali e Tribunali interni è disciplinato dalle regole esposte nel precedente capitolo, le quali trovano la loro fonte nello Statuto della Corte penale internazionale o nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza istitutive dei tribunali penali ad hoc. La regola che dovrebbe informare i Tribunali interni è quella della universalità della giurisdizione. Qualora il reo si trovi nel territorio dello Stato, questi è obbligato a sottoporlo a procedimento penale oppure a estradarlo nello Stato che ne faccia richiesta. Tale principio ha trovato applicazione nel meccanismo per la repressione delle infrazioni gravi disciplinato dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949. Secondo le Convenzioni, ogni parte contraente ha il dovere di ricercare e processare i colpevoli di infrazioni gravi. Lo Stato in cui il reo si trova ha l’obbligo di processarlo, anche qualora non abbia un particolare titolo di giurisdizione. Il principio dell’universalità della giurisdizione, qualora venga applicato senza limite, comporta dei problemi politici e diplomatici. Il Belgio ho dovuto emendare la propria legislazione, dopo la sentenza della Corte internazionale di giustizia che ha trovato contrario al diritto internazionale il mandato di arresto contro il Ministro degli Affari Esteri del Congo e le proteste degli Stati Uniti ed Israele per i procedimenti aperti contro il Segretariato di Stato americano. Anche legge tedesca e quella spagnola sono orientate per l’universalità della giurisdizione.

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Fonti normative:

  • Convenzione contro la schiavitù firmata a Ginevra nel 1926;
  • artt. 55, 56 Carta delle Nazioni Unite;
  • Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948;
  • Convenzione sullo status di rifugiato del 1951;
  • Patto sui diritti civili e politici art. 1;
  • Patto sui diritti economici, sociali e culturali art.1;
  • Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali artt. 6, 7, 8, 10, 11, 12;
  • Patto addizionale alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali art. 1
  • l. 24 marzo 2001 n. 89 (cd. legge Pinto);
  • art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
  • D.P.C.M. del 2007;
  • l. 22 giugno 2012;
  • art. 630 c.p.p.
  • Carta dei diritti fondamentali dell’Ue del 2000;
  • art. 6 Trattato UE;
  • Documento di Copenaghen del 1990;
  • Documento di Mosca del 1991;
  • Conferenza del Vertice di Helsinki del 1992;
  • Convenzione di Stoccolma del 1992;
  • Risoluzione n.1541 dell’Assemblea Generale;
  • Accordo di Londra del 1945;
  • Conferenza di Kampala del 2010;
  • Convenzioni di Ginevra del 1949;
  • art. 3 Statuto del Tribunale per la ex Jugoslavia