Il rapporto tra giurisdizione e processo
Giurisdizione e processo sono termini che spesso vengono confusi. Si tratta di nozioni collegate ma non coincidenti: il processo è infatti il meccanismo, la modalità attraverso cui si attua la giurisdizione. A volte si parla di giurisdizione nel senso del potere giurisdizionale esercitato, altre volte ci si riferisce agli organi dotati di giurisdizione, (giurisdizione come apparato).
La giurisdizione è intesa come funzione dello Stato in cui si manifesta lo specifico potere di applicare la legge; il cosiddetto diritto obiettivo al caso concreto. La funzione deve essere esercitata da organi appositi, cioè dagli specifici organi giudicanti individuati dalle norme costituzionali, nonché dalle norme ordinarie.
Se la funzione giurisdizionale primaria è svolta dal giudice, accanto ad esso il codice pone alcuni organi giurisdizionali minori a carattere ausiliario, organi non chiamati a giudicare ma a collaborare all’esercizio della funzione attraverso lo svolgimento di attività strumentali.
I più importanti organi ausiliari del giudice civile sono: il cancelliere e l’ufficio di cancelleria, che può considerarsi l’organo amministrativo di base degli uffici giudiziari poiché esso riceve atti e documenti del processo, provvede alla loro conservazione ed alle certificazioni necessarie. Le cancellerie documentano, a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge, le attività proprie e quelle degli organi giudiziari e delle parti.
Il cancelliere procede al rilascio di copie ed estratti autentici dei documenti prodotti, provvede all’iscrizione delle cause al ruolo e alle comunicazioni; svolge una specifica attività di assistenza al giudice (nelle attività di cui deve formarsi processo verbale, questo viene redatto dal cancelliere stesso anche in forma telematica, così come è affidata al cancelliere la redazione e la sottoscrizione dei provvedimenti del giudice).
L’ufficiale giudiziario assistente il giudice in udienza, provvede all’esecuzione degli ordini del giudice, ed esegue le notificazioni degli atti, attende alle altre incombenze che la legge gli attribuisce. Nella realtà fattuale l’ufficiale giudiziario resta estraneo all’attività di udienza ed esercita la sua funzione quale organo fondamentale di due settori di attività: il procedimento di esecuzione forzata e il procedimento di notificazione degli atti.
Quando parliamo di processo parliamo della modalità in cui si estrinseca la giurisdizione.
Il linguaggio comune affianca al termine processo alcuni sinonimi, in particolare quello di procedimento. Taluni autori danno molta importanza alla distinzione tra processo e procedimento, ma la cosa ad oggi appare eccessiva.
La funzione giurisdizionale si caratterizza per un’attività complessa, con un inizio, uno svolgimento articolato e una conclusione, provvisoria o definitiva. Si tratta di un’attività che coinvolge il giudice, i soggetti privati che controvertono, gli organi ausiliari della giurisdizione. Il procedimento dunque è un insieme di atti: alcuni provengono dalle parti, altri dal giudice.
È atto di parte, ad esempio, la citazione introduttiva del giudizio; gli atti del giudice sono prevalentemente di natura provvedimentale (decreti ordinanze e sentenze), che regolano il corso del processo e decidono la controversia (un ulteriore atto del giudice è per esempio anche l’assunzione di una testimonianza). Altri atti possono poi provenire dal pubblico ministero, dal cancelliere e dell’ufficiale giudiziario.
Il PM assume l’iniziativa processuale, ovvero interviene nel processo da altri iniziati. Il PM attore propone istanza per la nomina del curatore della parte scomparsa; impugna il matrimonio nei casi previsti dagli artt. 117 e 119 c.c. e propone istanza per la dichiarazione di fallimento. Situazioni diverse fra loro ma accumulate dalla presenza di un forte interesse pubblico.
Quanto invece alle ipotesi di intervento in causa del PM si distingue un intervento necessario e uno facoltativo. L’intervento necessario sussiste nelle cause matrimoniali e in quelle di separazione, nelle cause relative allo stato e capacità delle persone. In altre cause, in cui il PM ravvisa un pubblico interesse, può intervenire facoltativamente. La partecipazione del PM è infine necessaria per lo svolgimento della pubblica udienza del giudizio di Cassazione.
Il pubblico ministero interviene facoltativamente solo in cause fatte in pubblica udienza e non in quelle in camera di consiglio. Il giudice adito, nei casi di intervento necessario, devi disporre la comunicazione degli atti al PM per consentirgli di intervenire. La comunicazione è facoltativa quando il giudice stesso ravvisi un pubblico interesse. Il PM ha poteri spettanti alle parti private nel processo e li esercita nelle stesse forme. Può produrre documenti, specificare delle prove, formulare le conclusioni restando nell’ambito della domanda e delle conclusioni formulate dalle parti private e non può proporre impugnazione.
La sentenza pronunciata nell’ambito di un processo al quale abbia partecipato il PM non acquista efficacia di giudicato nei suoi confronti, salvo che si tratti di sentenze che abbiano efficacia erga omnes. Il PM non può mai risultare soccombente anche se le sue conclusioni non sono accolte.
Il processo giurisdizionale quindi può essere definito come un’attività complessa globalmente considerata nel suo insieme e scandita nel tempo. Il procedimento si concretizza in una struttura a catena degli atti che sono coordinati tra loro in sequenza, sicché il vizio di un atto è idoneo a riflettersi sugli atti successivi che ne dipendono, la cosiddetta nullità derivata. La nullità di un atto non importa la nullità degli atti precedenti né di quelli successivi che ne sono indipendenti. Il processo viene studiato come un percorso che parte da un momento iniziale per arrivare a un momento finale, per cui si parla di pendenza.
Giurisdizione contenziosa e giurisdizione volontaria
La giurisdizione tipica è detta giurisdizione contenziosa: l’aggettivo indica che al giudice viene presentata una controversia, contesa tra due o più soggetti. Accanto a tale forma di giurisdizione il codice regola però un’attività collaterale del giudice, intesa non a comporre definitivamente la controversia ma a curare affari o incombenze. Si parla in tali casi di giurisdizione volontaria, un’attività che vede il giudice più amministratore che organo decisorio in senso proprio.
Il giudice è considerato il soggetto più adatto a valutare in modo soddisfacente interessi di minori o di incapaci, nel settore del diritto successorio e in quello societario. In tutti questi casi il giudice non esercita attività giurisdizionale garantita dall’art. 24 cost. A tale attività il codice dedica parte del quarto libro. Da un lato esso regola alcuni procedimenti, dall’altro detta poche regole comuni ai procedimenti in camera di consiglio (dove per camera di consiglio si intende la particolare conformazione della procedura che esclude la forma della pubblica udienza, di qui il nome di procedimenti camerali). Caratteristiche peculiarità del giudizio, la forma del ricorso, la decisione in forma di decreto motivato, la reclamabilità dei decreti, le limitate formalità della procedura e la sostanziale revocabilità dei provvedimenti.
Esempi classici di volontaria giurisdizione riguardano i casi di amministrazione di sostegno e di tutela dei minori.
Strumenti alternativi alla risoluzione giurisdizionale delle controversie: l’arbitrato
Il diritto costituzionalmente garantito della tutela giurisdizionale davanti gli apparati pubblici non esclude la possibilità per le parti di risolvere le proprie dispute relative ai diritti disponibili attraverso strumenti alternativi alla giustizia statuale. Non viene impedito che le parti possano, di comune accordo, rivolgersi a soggetti privati di loro fiducia per sottoporre ad essi la decisione di proprie controversie in luogo degli organi pubblici della giurisdizione.
È il caso dell’arbitrato che ha in comune con la tutela giurisdizionale il fatto che la definizione della controversia avviene attraverso una decisione resa da un terzo ancorchè tale terzo non appartenga all’apparato pubblico della giurisdizione.
Il titolo VIII del quarto libro del codice regola l’istituto dell’arbitrato, ovvero la convenzione di arbitrato attraverso cui le parti si accordano per rinunciare all’intervento degli organi della giurisdizione a favore della decisione privata della controversia.
Gli arbitri, pertanto, conoscono delle controversie a loro deferite e ne decidono con una pronuncia, il c.d. lodo arbitrale, che conclude un procedimento modellato sulla struttura del processo giurisdizionale. Il deferimento del giudizio non implica in ogni caso l’attribuzione agli arbitri dei poteri autoritativi inerenti alle funzioni giurisdizionali.
La convenzione d’arbitrato presenta due sottotipi negoziali: il compromesso e la clausola compromissoria.
Stipulato il compromesso le parti si accordano per rimettere agli arbitri una specifica controversia tra loro già insorta. Il compromesso deve essere fatto per iscritto e deve determinare l’oggetto della controversia. La clausola compromissoria è il patto con cui le parti stabiliscono che future controversie di un certo tipo siano decise da arbitri perché si tratti di controversie che possono formare oggetto di convenzione d’arbitrato. La clausola compromissoria può avere ad oggetto una controversia di natura contrattuale e in materia non contrattuale. Poiché l’arbitrato ha la sua natura nella concorde volontà delle parti e nella autonomia privata, si ritiene che contrasti con la garanzia del diritto di azione dell’art. 24 cost l’ipotesi di arbitrato obbligatorio. L’accesso alla tutela giurisdizionale può quindi essere limitato dal libero accordo dalle parti ma non può essere negato dalla legge contro la volontà di una parte.
Gli arbitri sono legati alle parti da un contratto di mandato. La natura del loro ufficio è quella di mandatari ed è un obbligazione di diritto privato, agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. Gli arbitri possono essere uno, c.d. arbitrato unico, o più, il cosiddetto collegio arbitrale, il numero è dispari (di solito 3 membri). In linea di massima gli arbitri sono nominati dagli stessi soggetti interessati, i cosiddetti compromettenti, ma la legge o la stessa volontà delle parti può attribuire il potere di nomina a terzi soggetti.
La regola è che gli arbitri debbano seguire e applicare le norme di diritto, salvo che le parti abbiano disposto con qualsiasi espressione che essi pronuncino secondo equità. Il lodo è di per sè un atto privato ma la legge gli conferisce gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria.
Svolge la stessa funzione a cui adempie la sentenza civile, cioè la funzione di fare stato nei diritti e obblighi accertati. Il deposito del lodo in tribunale è eventuale. Il codice consente di impugnare il lodo, anche indipendentemente dal suo deposito con i mezzi dell’azione di nullità. Le impugnazioni si propongono agli organi della giurisdizione pubblica individuati nella Corte d’Appello nel cui distretto è la sede dell’arbitrato.
Accanto ad arbitrato cosiddetto rituale appena specificato, il codice contempla anche il cosiddetto arbitrato irrituale. Tale ultimo arbitrato prevede la possibilità che le parti stipulino una convenzione di arbitrato che preveda come la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazioni contrattuali. Il lodo pronunciato all’esito di un arbitrato irrituale configura pur sempre la decisione di una controversia, ma le parti accettano che essa si mantenga sul piano di una decisione privata, il lodo contrattuale, senza ottenerne riconoscimento ed esecutività.
Mediazione e negoziazione assistita
La mediazione e la negoziazione assistita sono strumenti rivolti alla definizione della controversia attraverso un accordo tra le parti in lite con l’intervento e all’ausilio di un terzo. A differenza che nell’arbitrato, dove l’atto che vincola le parti proviene dal terzo, la c.d risoluzione eteronoma della controversia, nella mediazione e nella negoziazione assistita il terzo si limita a collaborare alla elaborazione di una soluzione che le parti assumono come propria, la c.d. risoluzione autonoma della controversia.
Il d.l. 4 marzo 2010 n. 28 ha introdotto la mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali relative ai diritti disponibili. Essa è definita in termini di attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale, il mediatore; è finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta.
Il decreto legge n. 28 del 2010 disciplina quattro tipologie di mediazione che si svolgono davanti ad organismi abilitati, inseriti in un apposito registro istituito presso il Ministero della giustizia. Trattasi della mediazione obbligatoria, facoltativa, ordinata dal giudice e concordata dalle parti.
L’avvocato deve informare il proprio assistito, a pena di annullabilità del contratto di patrocinio, della possibilità di avvalersi della mediazione e delle agevolazioni fiscali di cui può usufruire.
Per un’ampia categoria di controversie il decreto legge n. 28 del 2010 pone il previo esperimento del procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, stabilendo che chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa una controversia in materia di:
- condominio,
- diritti reali,
- divisione,
- successione ereditaria,
- patti di famiglia,
- locazione,
- comodato,
- affitto di aziende,
- risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità,
- contratti assicurativi, bancari e finanziari,è tenuto preliminarmente ad esperire, assistito dall’avvocato, il procedimento in questione.
L’assistenza dell’avvocato è necessaria solo nei casi in cui l’esperimento della mediazione è obbligatorio per legge o per ordine del giudice, Nelle altre ipotesi è meramente facoltativa. Il previo esperimento del tentativo di mediazione è obbligatorio e l’eventuale sua omissione è un vizio rilevabile su istanza di parte o d’ufficio, entro il termine perentorio della prima udienza.
La mediazione facoltativa per tutte le controversie diverse da quelle elencate può essere esperita soltanto se riguardante diritti disponibili. Chiunque, su base volontaria, può accedere alla mediazione sia prima dell’instaurazione del processo, al fine di evitare ricorso al giudice, sia nel corso di esso.
Si prevede poi che il giudice valuti la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti e possa ordinare alle parti l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso la mediazione sarà ordinata dal giudice. In questo caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello.
La mediazione concordata è possibile se, contrattualmente, le parti la prevedono per eventuali controversie discernenti dal rapporto convenzionalmente regolato. In mancanza di esperimento della mediazione la parte convenuta in giudizio può eccepire nella prima difesa la violazione dell’obbligo contrattualmente assunto.
In tal caso il giudice rinvia le parti in mediazione fissando nuova udienza dopo la scadenza del termine di durata massima del relativo procedimento.
Il procedimento di mediazione inizia con il deposito di una domanda presso un organismo, nel luogo del giudice territorialmente competente per la controversia, dalla quale devono risultare: l’organismo adito, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa. Se le parti non raggiungono da sole un accordo amichevole il mediatore può formulare una proposta di conciliazione, in ogni caso esso procede con formale richiesta concorde dalle parti in qualunque momento del procedimento. Se la proposta è accettata le parti addivengono alla composizione amichevole della lite. Se la proposta non è accettata ci saranno conseguenze sfavorevoli in merito alle spese processuali a carico della parte che non ha aderito anche se essa sia risultata vittoriosa nell’ambito del successivo giudizio dinanzi al giudice.
La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati differisce dalla mediazione per l’assenza del terzo neutrale e imparziale, il mediatore.
Gli avvocati partecipano alla procedura nell’interesse della parte assistita, ognuno proponendo il maggiore vantaggio egoisticamente ottenibile in base alla concreta forza negoziale della parte assistita.
Sussistono due modelli:
- la negoziazione assistita obbligatoria, condizione di procedibilità della domanda giudiziale in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e per tutte le domande di pagamento a qualsiasi titolo di somme non superiori a €50.000
- la negoziazione assistita facoltativa a cui le parti possono ricorrere per qualunque controversia purché non riguardi diritti indisponibili.
La procedura di negoziazione assistita si fonda sulla convenzione, definita accordo, mediante la quale le parti convengono di cooperare con buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo. L’accordo può essere stipulato soltanto da parti che non abbiano adito un giudice o che si sono rivolte a un arbitro.
La convenzione può essere preceduta da un invito alla stipulazione della stessa con l’indicazione dell’oggetto della controversia e l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro 30 giorni dalla ricezione o il suo rifiuto possano essere valutati dal giudice ai fini delle spese processuali.
Come per la mediazione, la comunicazione dell’invito produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale e impedisce per una sola volta la decadenza. Se la negoziazione si conclude con la composizione della controversia, il relativo accordo, sottoscritto dalle parti e dai relativi avvocati, costituisce titolo esecutivo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale.