Nozioni generali
Nel giudizio civile le parti devono indicare al giudice i mezzi di prova per accreditare la propria versione dei fatti litigiosi, conformemente al principio dispositivo (art. 115, comma 1, c.p.c.). Il giudice deve infatti giudicare sulla base di quanto allegato e provato dalle parti, valutando l’ammissibilità e la rilevanza dei mezzi di prova che le parti offrono o chiedono di acquisire.
Un mezzo di prova è ammissibile se conforme alla legge, ad esempio non è ammissibile la testimonianza di un soggetto con un diretto interesse nella controversia (art. 246 c.p.c.) o una testimonianza volta a provare patti contrari al contenuto di un documento (art. 2722 c.c.). La rilevanza dei mezzi di prova riguarda invece la loro capacità di influenzare la decisione della lite.
Una volta ammesse (con ordinanza) e assunte le prove, il giudice valuterà la loro concludenza in sede di sentenza, ossia la loro idoneità o meno a dimostrare i fatti sui quali vertevano. A questo fine, il giudice riterrà “provata” una circostanza non solo quando sarà certo che si sia effettivamente verificata, ma anche quando le prove raccolte lo avranno convinto che una delle due versioni dei fatti presentate dalle parti sia convincente e coerente con il materiale probatorio raccolto (v. Cass., sez. un., 14 dicembre 1999, n. 898; Cass., sez. un., 13 novembre 1996, n. 9961; e, da ultimo, Cass. 23 maggio 2014, n. 11511).
In ogni caso, il giudice deve motivare la propria decisione spiegando le ragioni del suo convincimento, che deve formarsi sulla base di quanto allegato e provato dalle parti. Non è consentito al giudice trarre elementi di convincimento da fonti di informazione non acquisite ritualmente in giudizio con tutte le garanzie processuali, incluso il rispetto del contraddittorio tra le parti (Cass. 13 giugno 2014, n. 13485).
Peraltro, il giudice può autonomamente ricorrere alle nozioni di comune esperienza, i cosiddetti fatti notori, che sono circostanze acquisite alla conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili e incontestabili (art. 115, comma 2, c.p.c.).
Ovviamente un problema di prova si pone solo con riferimento ai fatti oggetto di specifica contestazione tra le parti; i fatti sui quali non sorgono divergenze di prospettazione sono posti dal giudice a fondamento della decisione senza necessità di prova (art. 115, comma 1, c.p.c.).
L’onere della prova
Quando durante un processo le parti presentano versioni contrastanti di un fatto e le prove raccolte risultano insufficienti, non persuasive o contraddittorie, il giudice deve comunque prendere una decisione basandosi su principi giuridici, senza potersi rifiutare di giudicare o basarsi su considerazioni personali.
In questi casi, dovrà applicare la regola dell’ “onere della prova” (art. 2697 c.c.), secondo cui, in assenza di una prova convincente circa un fatto rilevante ai fini del giudizio, viene accolta la versione di esso presentata dalla parte che non ha l’onere della prova. In altre parole, il rischio di mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova di un fatto controverso è a carico della parte su cui grava l’onere della prova; questa parte ha quindi tutto l’interesse a dimostrare il fatto in giudizio, per evitare che la domanda o l’eccezione fondata su tale fatto venga respinta.
Il giudice deve basare il proprio convincimento su tutte le prove acquisite, indipendentemente da chi le abbia offerte. Pertanto, la regola dell’onere della prova viene applicata non in tutti i giudizi, ma solo in quelli in cui un fatto contestato rimane privo di prova sufficiente (cd. carattere residuale della regola dell’onere probatorio).
Naturalmente il problema più delicato consiste nell’accertare, per ciascun fatto, a quale delle parti spetti l’onere della prova.
In linea di principio, l’onere di provare un fatto ricade su chi invoca quel fatto a sostegno della propria tesi. L’articolo 2697 c.c. stabilisce che chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti costitutivi del diritto stesso, mentre chi contesta tali fatti deve provare la loro inefficacia o eventuali fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto fatto valere.
Tuttavia, rispetto a taluni fatti, può essere difficile accertare l’esatta qualifica da attribuire alla circostanza contestata, al fine di determinare a quale parte spetti l’onere della prova. Ad esempio, chi chiede l’adempimento di un’obbligazione deve provare l’inadempimento del convenuto, oppure è il convenuto che ha l’onere di provare di avere già adempiuto?
A tale proposito, spesso, la legge stessa, in modo esplicito o implicito, consente di stabilire se una circostanza debba essere considerata un fatto costitutivo o impeditivo, come nell’articolo 1147, comma 3, c.c., che presume la buona fede e impone di provare la mala fede a chi la contesta.
Quando la legge non specifica il carattere costitutivo o impeditivo di una circostanza, spetta all’interprete determinare su quale delle parti debba ricadere il relativo onere probatorio. Al riguardo, la Suprema Corte adotta il principio della vicinanza della prova, che assegna l’onere probatorio alla parte che è in una posizione migliore per assolverlo.
L’onere della prova può correttamente definirsi come il rischio per la mancata prova di un fatto rimasto incerto nel giudizio; rischio addossato dal legislatore a quella parte che avrebbe dovuto trovarsi nelle migliori condizioni per fornire la prova della circostanza invocata. Se la parte, invece, non riesce a convincere il giudice, quest’ultimo deve considerare la circostanza come non avvenuta, anche se non sia per nulla sicuro che quel fatto, in realtà, effettivamente non sia accaduto (così, ad es., chi pretende la restituzione della somma mutuata, ha l’onere di provare la stipulazione del mutuo: se non riesce a dare la prova che ciò è avvenuto, il giudice deve respingere la domanda, anche se non è per nulla sicuro che il mutuo non sia stato effettivamente concesso).
Le parti possono stabilire un’inversione convenzionale dell’onere della prova, tranne nei casi di diritti indisponibili e purché la modifica non renda eccessivamente difficile ad una delle parti l’esercizio del diritto (art. 2698 c.c.).
I mezzi di prova
I “mezzi di prova” includono qualsiasi elemento idoneo a stabilire quale, tra le contrapposte versioni di un fatto sostenute dalle parti in lite, sia la più convincente.
Oltre alle cd. “prove tipiche” espressamente indicate e disciplinate dal legislatore (artt. 2699-2739 c.c.), il giudice, dandone adeguata motivazione, può basarsi anche su “prove atipiche”, purché queste offrano validi elementi di giudizio (Cass. 10 ottobre 2018, n. 25067; Cass. 8 marzo 2018, n. 5539).
Il principio fondamentale, in tema di valutazione delle prove, è quello della loro libera valutazione da parte del giudice, che deve valutarle secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116 c.p.c.).
Tuttavia, questa discrezionalità è temperata dall’obbligo di motivazione, che richiede al giudice di spiegare, in sede di decisione, perché certi mezzi di prova sono stati ritenuti convincenti e altri no, se sia stato applicato il principio dell’onere della prova; e così via: spiegazioni che è sempre possibile sottoporre al controllo del giudice dell’impugnazione.
Peraltro, talvolta, il legislatore deroga al principio del libero apprezzamento, disponendo che alcune prove costituiscano “prove legali”, la cui rilevanza è predeterminata dalla legge, di modo che il giudice non abbia alcuna discrezionalità nel valutarle . Esempi includono l’atto pubblico (art. 2700 c.c.), la confessione (art. 2733 c.c.) e il giuramento decisorio (art. 2738 c.c.). Queste prove fanno “piena prova” della provenienza del documento dal pubblico ufficiale, così come delle dichiarazioni e dei fatti attestati come avvenuti alla sua presenza (nell’atto pubblico), della veridicità dei fatti sfavorevoli dichiarati dal confitente (nella confessione), della verità dei fatti confermati sotto giuramento (nel giuramento decisorio), ecc. In tali circostanze, il giudice è vincolato e non può decidere in contrasto con i fatti che devono considerarsi “pienamente provati”.
I mezzi di prova si distinguono in due categorie: “prove precostituite” o documentali, che esistono già prima del giudizio (ad esempio, atto pubblico, scrittura privata, registrazione fonografica), e “prove costituende”, che si formano nel corso del giudizio (ad esempio, prova testimoniale, presunzione, giuramento).
La prova documentale
La prova documentale riguarda ogni cosa (ad es., certificati rilasciati dalla P.A., fatture, libri contabili, lettere ecc.) idonea a rappresentare un fatto, in modo da consentirne la conoscenza a distanza di tempo.
Tra i documenti più importanti si annoverano l’atto pubblico e la scrittura privata.
“Atto pubblico” è il documento redatto con particolari formalità (stabilite dalla legge) da un notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuire all’atto una particolare fiducia nella sua veridicità chiamata “pubblica fede” (art. 2699 c.c.). Sono atti pubblici, ad es., oltre i rogiti notarili, i verbali d’udienza redatti da un cancelliere del tribunale, le relazioni di notifica predisposte dagli ufficiali giudiziari, i verbali redatti dalla commissione di un concorso pubblico, ecc.
L’atto pubblico, che oggi può essere redatto anche con procedure informatiche, fa “piena prova” (prova legale):
- della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato;
- delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti alla sua presenza (art. 2700 c.c.).
Pertanto, l’atto pubblico non fa prova: della veridicità del contenuto delle dichiarazioni rese dalle parti avanti al pubblico ufficiale e della fondatezza dei giudizi eventualmente espressi da quest’ultimo.
Per contestare questa forza probatoria è necessario ricorrere ad un particolare procedimento, che si avvia mediante una “querela di falso” (art. 221 c.p.c.): vale a dire, mediante la richiesta che il giudice accerti, in via separata rispetto al processo in cui il documento è prodotto e se ne chiede l’utilizzazione, che quel documento è in realtà oggettivamente falso.
Se un atto pubblico è nullo per difetto di qualche formalità essenziale, può avere la stessa efficacia di una scrittura privata, se sottoscritto da una o più parti: cd. conversione formale (art. 2701 c.c.).
La “scrittura privata” è qualsiasi documento sottoscritto da un privato. È essenziale la sottoscrizione autografa di colui che, con la firma, si assume la paternità del testo e, di conseguenza, la responsabilità di quanto in esso dichiarato.
La sua efficacia probatoria è inferiore rispetto all’atto pubblico, facendo prova soltanto contro chi ha sottoscritto il documento, e non anche a suo favore. Questo valore, tuttavia, è condizionato al fatto che il firmatario riconosca la propria sottoscrizione come autentica, oppure che la sottoscrizione sia considerata legalmente riconosciuta (art. 2702 c.c.).
Si ha per “legalmente riconosciuta” la sottoscrizione autenticata da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato (art. 2703 c.c.), oppure la sottoscrizione di un documento prodotto in giudizio e non disconosciuta dalla parte contro cui la produzione è effettuata (art. 215 c.p.c.). Dunque se la scrittura non è autenticata, basta che la persona a cui è attribuita neghi, specificamente e determinatamente, la propria sottoscrizione, perché la parte che vuole avvalersi della scrittura debba fornire la prova della sua provenienza attraverso il procedimento di verificazione (artt. 216 ss. c.p.c.).
Se, invece, la sottoscrizione è autenticata, riconosciuta o non disconosciuta, la scrittura privata costituisce “piena prova” (prova legale) della provenienza delle dichiarazioni da parte del sottoscrittore, fino a querela di falso (art. 2702 c.c.). Questo valore probatorio si applica quando la scrittura privata è utilizzata contro il sottoscrittore in un giudizio in cui egli è parte. Se, invece, è invocata in un giudizio dove il sottoscrittore è estraneo, la scrittura privata ha valore meramente indiziario (Cass., sez. un., 23 giugno 2010, n. 15169; Cass. 1° marzo 2018, n. 4842); salvo che per quanto riguarda la sua provenienza, se la sottoscrizione è autenticata.
La “data” di una scrittura privata può essere rilevante nei confronti dei terzi, ad esempio, per determinare quale tra due contratti sia stato concluso prima, come nel caso previsto dall’art. 1599 c.c., in cui il compratore di un bene già locato deve rispettare il contratto di locazione se questo è anteriore alla vendita.
Per prevenire frodi come la retrodatazione, dove le parti potrebbero concordare una data fittizia, anteriore all’atto, a discapito di un terzo, la legge stabilisce (art. 2704 c.c.) che la data della scrittura privata è considerata certa per i terzi in specifici casi:
- per una scrittura privata autenticata, la data certa è quella dell’autenticazione;
- per una scrittura privata non autenticata, la data certa è quella della sua registrazione o quella in cui si verifica un evento che dimostri in modo incontestabile che il documento è stato formato anteriormente. Tali eventi possono includere la morte o l’incapacità fisica di uno dei firmatari, o la riproduzione del contenuto della scrittura in un atto pubblico.
Il legislatore riconosce al telegramma l’efficacia probatoria della scrittura privata, purché l’originale consegnato all’ufficio di partenza sia sottoscritto dal mittente o consegnato personalmente da lui, anche senza firma.
Le carte e i registri domestici hanno valore probatorio contro chi li ha scritti alle condizioni dell’art. 2707 c.c., anche se privi di sottoscrizione.
Anche i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore ad es. per quanto riguarda i debiti risultanti da tali scritture, con presunzione di veridicità delle singole annotazioni, contro la quale è ammessa prova contraria.
Le riproduzioni fotografiche, informatiche, cinematografiche e ogni altra rappresentazione meccanica di fatti o cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se la loro conformità non è disconosciuta chiaramente dalla parte contro cui sono prodotte in giudizio.
Anche le e-mail rientrano tra le riproduzioni informatiche con valore probatorio.
Le copie fotostatiche e fotografiche di scritture hanno efficacia pari alle autentiche, se la loro conformità all’originale è attestata da un pubblico ufficiale competente, ovvero non espressamente disconosciuta. La contestazione deve essere chiara e circostanziata.
Il disconoscimento di riproduzioni meccaniche e copie non impedisce al giudice di verificarne la conformità all’originale con altri mezzi di prova, comprese le presunzioni.
Quanto al fax, si discute se sia una riproduzione meccanica o una fotocopia teletrasmessa, con diverse implicazioni probatorie, ma in ogni caso fa piena prova della sua conformità se non contestata.
I documenti informatici, ovvero i documenti elettronici che rappresentano atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti, hanno varie forme di validità probatoria. Un documento con firma elettronica autenticata ha lo stesso valore di una scrittura privata autenticata (art. 25, D.Lgs. n. 82/2005); documenti con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, se non disconosciuti, fanno piena prova della loro provenienza dal titolare della firma (art. 20, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005). Il disconoscimento della paternità di un documento con firma qualificata o digitale richiede la prova da parte del disconoscente (art. 20, comma 1-ter, D.Lgs. n. 82/2005). Infine, un documenti con firma elettronica semplice sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, in relazione alle caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità (art. 20, comma 1-bis, D.Lgs. n. 82/2005).