Premessa
Qualora il diritto soggettivo non venga rispettato, solo in casi eccezionali il suo titolare può provvedere in prima persona alla sua tutela; in queste ipotesi si discorre di “autotutela”. Infatti, generalmente, il soggetto che vuol far valere un proprio diritto deve rivolgersi al giudice (art. 2907 c.c.); se il privato si fa ragione da sé con violenza sulle cose o con violenza o minaccia alle persone, incorre in una condotta punita penalmente.
Il codice consente talune forme di autotutela; si pensi alla difesa del possesso finché la violenza dell’aggressore è in atto (vim vi repellere licet), alla facoltà del contraente di recedere dal contratto, trattenendo la caparra confirmatoria ricevuta, in caso di inadempimento dell’altra parte (art. 1385, comma 2, c.c.) e alla facoltà del contraente di intimare diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.). Inoltre, vi è il potere di opporre l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), la facoltà dell’acquirente di sospendere il pagamento del prezzo in caso di pericolo di rivendica (art. 1481 c.c.), la facoltà del venditore, per il mancato pagamento del prezzo da parte dell’acquirente, di far vendere senza ritardo le cose mobili compravendute, per conto e a spese di lui (art. 1515 c.c.) e la legittima difesa.
Cenni sui tipi di azione
Lo Stato ha avocato a sé il potere (e il dovere) di rendere giustizia ai consociati. Il diritto di rivolgersi agli organi all’uopo istituiti si chiama diritto di agire in giudizio. Chi esercita tale azione lo fa con la domanda giudiziale (attore) contro un altro soggetto, definito convenuto.
Il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi è oggetto di una specifica garanzia costituzionale (art. 24 Cost.) e, quindi, non può essere soppresso o limitato. È anche diritto inviolabile dei cittadini la possibilità di difendersi in giudizio (art. 24, comma 2, Cost.). La Costituzione prevede poi che ai non abbienti siano assicurati mezzi idonei per difendersi adeguatamente davanti a qualsiasi giudice (art. 24, comma 3, Cost.).
Si discorre di giudizio di cognizione quando tra i due soggetti sorge una controversia in ordine alla sussistenza o al modo di essere di un determinato diritto soggettivo (ad esempio se la proprietà di un certo fondo spetta a Tizio ovvero a Caio); il giudice individuerà la regola applicabile al caso concreto.
L’azione di cognizione può tendere a tre finalità:
- al mero accertamento dell’esistenza/inesistenza e/o del modo di essere di un rapporto giuridico controverso. Si avrà quindi “sentenza di mero accertamento”;
- all’emanazione di un comando, che il giudice rivolgerà alla parte soccombente, di tenere la condotta che lo stesso giudice riconosca come dovuta. È il caso del giudice che condannerà Caio al rilascio del fondo che accerti essere da quest’ultimo occupato illegittimamente. Si avrà, quindi, una azione e una “sentenza di condanna”;
- alla costituzione, modificazione o estinzione di rapporti giuridici (art. 2908 c.c.). In questa ipotesi, la sentenza non si limita ad accertare la situazione giuridica preesistente o ad esprimere un comando concreto che, in via astratta e generale, poteva ritenersi già esistente in applicazione della norma di legge, ma modifica la situazione fino a quel momento vigente. Si avrà una azione e una “sentenza costitutiva”. È il caso della pronunzia di separazione personale fra coniugi e della sentenza che accoglie la domanda di costituzione di una servitù coattiva (art. 1032 c.c.).
Se, dopo una sentenza che lo condanna a tenere una condotta, Caio, non ottempera neppure a quanto disposto dal giudice, Tizio potrà instaurare contro di lui un processo di esecuzione, per realizzare coattivamente il comando contenuto nella sentenza. Ad esempio Tizio potrà ottenere, se necessario anche con l’intervento della forza pubblica, il rilascio dell’immobile illegittimamente occupato da Caio.
Inoltre, per evitare che, nel corso del processo di cognizione, controparte possa porre in essere condotte destinate a frustrare gli effetti di un’eventuale futura sentenza sfavorevole, l’altra parte potrà avvalersi del processo cautelare. Ad esempio, per evitare che, nelle more di un procedimento di condanna al pagamento di una determinata somma di danaro, Caio possa sottrarre/occultare/alienare i beni oggetto del processo Tizio può richiedere immediatamente il sequestro conservativo dei beni di Caio.
La finalità del processo cautelare è, in genere, quella di conservare lo stato di fatto esistente, per rendere possibile l’esecuzione dell’emananda sentenza.
La cosa giudicata
Per meglio assicurare la conformità della sentenza a giustizia, le parti possono promuovere il riesame della lite, impugnando la decisione. Tuttavia, questo riesame non può essere consentito senza limiti; verificatesi certe condizioni (come il decorso di termini, l’esaurimento dei mezzi di impugnativa concessi dalla legge), il comando contenuto nella sentenza non può essere più modificato da alcun altro giudice, costituendo “res iudicata”.
L’efficacia del giudicato riguarda, in primo luogo, il processo; esso preclude ogni ulteriore riesame ed impugnazione della sentenza. Perciò l’art. 324 c.p.c. (“Cosa giudicata formale”) sottolinea che s’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta ai mezzi di impugnazione ivi indicati.
Ma la cosa giudicata ha anche un valore sostanziale (c.d. “cosa giudicata sostanziale”); non soltanto non si può impugnare la sentenza, ma, se in essa è stato riconosciuto il mio diritto di proprietà o di credito, ciò non può più formare oggetto di discussione o di riesame tra me e l’altra parte (ed i rispettivi aventi causa), neppure in futuri processi.
L’art. 2909 c.c. dice che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato “fa stato” ad ogni effetto fra le parti, i loro eredi ed aventi causa. La cosa giudicata in senso sostanziale consiste, quindi, nella definitività dell’accertamento contenuto nella sentenza anche fuori del processo nel quale è stata pronunciata.
Il processo esecutivo
Come specificato, se non viene spontaneamente adempiuto il comando contenuto nella sentenza, colui a cui favore detto comando è stato emesso può iniziare il procedimento esecutivo.
Solo in alcuni casi detto procedimento riesce ad assicurare coattivamente proprio quel risultato voluto dal comando contenuto nella sentenza; è il caso dell’esecuzione forzata “in forma specifica”.
Ciò accade nelle ipotesi in cui sia rimasto ineseguito:
- un obbligo avente ad oggetto la consegna di una cosa determinata, mobile o immobile (ad esempio, l’obbligo dell’inquilino, alla scadenza del contratto di locazione, di riconsegnare l’immobile al proprietario). L’avente diritto otterrà la consegna o il rilascio forzati del bene stesso (art. 2930 c.c.);
- un obbligo avente ad oggetto un “facere” fungibile (ad esempio l’obbligo dell’appaltatore di ultimare l’edificio che si è impegnato a realizzare); l’avente diritto potrà ottenere soltanto che esso sia eseguito da altri, seppure a spese dell’obbligato (art. 2931 c.c.; artt. 612 ss. c.p.c.);
- un obbligo avente ad oggetto quel particolare “facere” (infungibile) consistente nella conclusione di un contratto (ad esempio l’obbligo che il proprietario si sia assunto, in forza di un c.d. contratto preliminare, di vendere il proprio appartamento ad un determinato acquirente). In tal caso l’avente diritto potrà ottenere dal giudice una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso (ossia una sentenza che trasferisca la proprietà dell’appartamento dal promittente venditore inadempiente al promissario acquirente: art. 2932 c.c.);
- un obbligo avente ad oggetto un non facere (ad esempio l’obbligo di non sopraelevare un muro); l’avente diritto potrà ottenere, a spese dell’obbligato, la distruzione della cosa realizzata in violazione di detto obbligo (art. 2933, comma 1, c.c.), sempre che la distruzione non sia di pregiudizio all’economia nazionale. Tutto ciò presuppone che la violazione dell’obbligo di non facere riguardi una cosa suscettibile di distruzione. In caso contrario (è l’ipotesi della violazione del patto di non concorrenza ex 2125 c.c.), l’avente diritto non può concretamente impedire che controparte continui a tenere la condotta vietata ma potrà ottenere soltanto il risarcimento del danno.
La forma più importante di procedimento esecutivo è quella che ha per oggetto l’espropriazione dei beni del debitore: c.d. esecuzione mediante espropriazione forzata. Il bene o i beni colpiti dall’esecuzione vengono, di regola, venduti ai pubblici incanti e la somma ricavata ripartita tra i creditori. Il procedimento di espropriazione forzata ha inizio con il pignoramento (art. 491 c.p.c.), che è l’atto con il quale si indicano i beni assoggettati all’azione esecutiva.
L’art. 2913 c.c. stabilisce che non hanno effetto, in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione, gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento. Tale inefficacia dipende non dall’incapacità del debitore sottoposto a pignoramento e neanche dalla perdita della proprietà dei beni, che non è ancora avvenuta; ma dalla destinazione dei beni alla espropriazione. Tale inefficacia è relativa; può essere fatta valere solo dal creditore pignorante e dai creditori intervenuti nell’esecuzione.