I rapporti tra ordinamenti giuridici e la teoria del rinvio
Sulla base della teoria dualistica ordinamento interno e ordinamento internazionale sono giuridicamente separati e originari. Non fanno parte, quindi, di un unico sistema giuridico, come sostiene la teoria monistica, secondo cui l’ordinamento internazionale sarebbe direttamente applicabile nell’ordinamento interno e ne vincolerebbe i soggetti. Essi, però, comunicano tra di loro, secondo il sistema del rinvio formale e materiale.
Con il rinvio formale un ordinamento giuridico rinvia alle norme di un altro ordinamento nella loro qualità di norme formali. Nell’ordinamento richiamante la norma giuridica segue la vita che essa ha nell’ordinamento richiamato. Se nell’ordinamento richiamato la norma si estingue, essa si estingue anche nell’ordinamento richiamante. Il rinvio formale può essere ricettizio o non ricettizio. Nel primo caso la norma dell’ordinamento richiamato viene immessa nell’ordinamento richiamante; nel secondo caso la norma dell’ordinamento richiamato costituisce solo il presupposto per l’applicazione di norme dell’ordinamento richiamante. Costituisce esempio di rinvio formale ricettizio l’immissione delle norme di un trattato nell’ordinamento italiano tramite ordine di esecuzione; un esempio di rinvio formale non ricettizio è quello operato dall’art. 2 della legge di guerra (1938), secondo cui l’applicazione della legge di guerra è ordinata con decreto reale, quando lo Stato italiano è in guerra con un altro. L’esistenza dello stato di guerra deve essere determinata alla stregua dell’ordinamento internazionale.
Con il rinvio materiale, invece, l’ordinamento richiamante rinvia alle norme dell’ordinamento richiamato non nella loro qualità formale di norme giuridiche, ma nel loro contenuto materiale. Spesso per esigenze di celerità si fa rinvio alla normativa di un altro Paese. Ma se il rinvio è materiale, il cambiamento di normativa nell’ordinamento richiamato non ha nessun effetto nell’ordinamento richiamante. Ad es. nello Stato della Città del Vaticano, in materia penale, vige ancora il Codice Zanardelli, nonostante in Italia sia stato sostituito dal Codice Rocco. La legge sulle fonti del diritto dello Stato della Città del Vaticano stabilisce che si osservano nello Stato, in mancanza di leggi proprie, le leggi emanate nel Regno d’Italia fino all’entrata in vigore della presente. Naturalmente ci sono state successive evoluzioni.
Il diritto internazionale regola i rapporti tra Stati; ma per raggiungere i suoi obiettivi, deve sussistere cooperazione tra gli ordinamenti interni. Di qui l’esigenza di apportare nell’ordinamento interno quelle modifiche necessarie per conseguire il raggiungimento degli obiettivi fissati dal diritto internazionale.
Ogni ordinamento giuridico statale procede autonomamente all’adattamento del diritto interno al diritto internazionale. In Italia si distingue tra adattamento al diritto internazionale consuetudinario e adattamento al diritto internazionale pattizio. Nel primo caso, il procedimento di adattamento è disciplinato dall’art. 10, comma 1, Cost. (stessa norma che disciplina l’adattamento del nostro ordinamento alle norme imperative del diritto internazionale); nel secondo, manca una disciplina dell’adattamento, sia a livello costituzionale che di legge ordinaria. Le modifiche apportate all’art. 117, comma 1, Cost. non riguardano tanto l’adattamento, ma la prevalenza delle norme internazionali immesse nel nostro ordinamento sulle contrarie norme di leggi ordinarie interne. L’art. 117, comma 1 Cost. non dispone l’adattamento automatico ai trattati.
L’adattamento al Diritto Internazionale e consuetudinario e allo Ius Cogens
L’adattamento al diritto internazionale consuetudinario è disposto dall’art. 10, comma 1, Cost. secondo cui “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. La disposizione è un rinvio formale all’ordinamento internazionale; ogni variazione che si produce in quest’ultimo si riproduce anche nell’ordinamento interno.
È da chiedersi se l’adattamento sia sempre operante, anche nel caso in cui la norma internazionale contrasti con la Costituzione. Della questione si era occupata la Corte Costituzionale, sentenza n. 48/1979, ripresa successivamente dalle Sezioni Unite, sent. 530/2000, che aveva distinto tra norme consuetudinarie anteriori alla data di entrata in vigore della Costituzione, che sarebbero recepite nel nostro ordinamento senza alcun limite, e norme consuetudinarie posteriori, che non potrebbero essere recepite qualora contrastassero con i princìpi costituzionali.
L’adeguamento disposto dall’art. 10 non può “consentire la violazione dei princìpi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale”.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 238/2014, che si è pronunciata per la non presenza nell’ordinamento italiano della normativa sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati, così come interpretata dalla Corte internazionale di giustizia nella controversia Germania c. Italia, ha contestato la distinzione tra norme consuetudinarie esistenti prima dell’entrata in vigore della Costituzione, per cui sarebbe inammissibile il giudizio di costituzionalità, e norme consuetudinarie posteriori, per cui sarebbe ammissibile, ed ha affermato che tutte le norme consuetudinarie possono essere oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, senza alcun limite temporale. La Corte ha ribadito che “i princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona umana” rappresentano un limite all’ingresso delle norme consuetudinarie nel nostro ordinamento.
Una norma consuetudinaria in contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo non sarebbe recepita nel nostro ordinamento e non dovrebbe essere applicata dal giudice, senza che sia necessario sollevare un giudizio di costituzionalità.
Quanto al contrasto tra norme costituzionali non incorporanti princìpi fondamentali e norme consuetudinarie è generalmente ammesso che la norma consuetudinaria possa derogare quella costituzionale.
L’art. 10, primo comma, Cost. fa riferimento alle “norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”. La dizione solleva due problemi. Occorre determinare se l’adeguamento sia operante nei confronti di una norma consuetudinaria oggetto di “obiezione persistente” da parte dell’Italia: premettendo che la norma di diritto consuetudinario impone un obbligo erga omnes, si dovrebbe ammettere che questa trovi applicazione quantunque l’Italia sia “obiettore persistente”. Inoltre, è necessario esaminare se una consuetudine regionale possa essere immessa nel nostro ordinamento tramite l’art. 10, primo comma, Cost: la risposta è positiva a patto, però, che la consuetudine regionale vincoli l’Italia.
La dottrina prevalente assegna alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute e conformi al nostro ordinamento il rango di norme costituzionali. Di conseguenza, una norma di legge ordinaria in contrasto con quest’ultime può essere oggetto di giudizio di costituzionalità ed, eventualmente, caducata dalla Corte Costituzionale.
La nostra Costituzione non disciplina espressamente l’adattamento allo ius cogens, poiché nel 1948 l’esistenza di norme internazionale imperative era pressoché sconosciuta. Tuttavia, l’art. 10, primo comma, Cost. è sufficientemente flessibile da riconoscere l’adattamento del diritto interno al diritto internazionale cogente.
Le norme imperative appartengono alle “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Una norma imperativa è tale quando sia “accettata e riconosciuta” dalla comunità internazionale. Gli Stati devono essere convinti, non solo della universale obbligatorietà della norma, ma anche della sua inderogabilità. La norma imperativa è sempre qualificata come norma del diritto internazionale generale: per tale motivo, al pari di quelle consuetudinarie, sono immesse nel nostro ordinamento tramite l’art. 10, primo comma, Cost.
La sentenza della Corte Cost. n. 1146/1988 ha stabilito una gerarchia tra le norme costituzionali, in altri termini tra taluni princìpi supremi e le norme costituzionali. I principi in questione avrebbero una “valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale” e non sarebbero modificabili, “nel loro contenuto essenziale”, neppure da norme costituzionali. Questo rappresenta un limite alla stessa revisione costituzionale.
Le norme imperative immesse nel nostro ordinamento appartengono alla categoria dei princìpi supremi della Costituzione: mentre i princìpi supremi della Costituzione sono immodificabili anche da una legge di revisione costituzionale, i princìpi supremi prodotti da una norma imperativa sarebbero modificabili solo da una norma imperativa posteriore. In altri termini, una modifica che si producesse nell’ordinamento internazionale, si ripercuoterebbe automaticamente nell’ordinamento interno.
I princìpi supremi di origine internazionalistica rappresenterebbero una modifica della Costituzione operata senza ricorrere al procedimento di revisione costituzionale. Una volta immessi nell’ordinamento interno, tali princìpi non potrebbero essere modificati da una legge di revisione costituzionale, ma solo da una norma di diritto internazionale avente natura imperativa.
Le norme imperative hanno un rango superiore a quello di tutte le altre norme internazionali. Esse occupano la stessa posizione nell’ordinamento interno, sono cioè gerarchicamente superiori a tutte le norme dell’ordinamento.
L’equiparazione delle norme imperative ai princìpi supremi immodificabili, impedisce che tramite un procedimento di revisione costituzionale si possa violare un principio di ius cogens, esponendo lo Stato italiano a illeciti particolarmente gravi e provocando una rottura con la vocazione internazionalistica dell’ordinamento.
A partire dal caso Ferrini, la nostra giurisprudenza ha applicato la teoria delle norme cogenti per dirimere il contrasto tra queste norme e quelle consuetudinarie. Si trattava di stabilire se lo Stato estero dovesse rispondere civilmente delle conseguenze della violazione di una norma cogente a causa della commissione di crimini internazionali da parte dei suoi organi belligeranti o non dovesse invece essere applicato il principio della immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione.
Secondo la Cassazione, in caso di parallela e antinomica coesistenza nell’ordinamento internazionale dei due princìpi (quello dell’immunità dalla giurisdizione e quello derivante dalla norma cogente), occorre fare ricorso al criterio del bilanciamento degli interessi e il contrasto deve essere risolto sul piano sistematico “dandosi prevalenza al principio di rango più elevato e di ius cogens”.
L’adattamento al Diritto Internazionale pattizio
Il trattato una volta ratificato ed entrato in vigore obbliga lo Stato nell’ordinamento internazionale. Per produrre effetti nel nostro ordinamento, il Trattato deve essere recepito nell’ordinamento interno. Non esiste nessuna disposizione costituzionale che provveda alla adattamento del diritto italiano al diritto internazionale pattizio. Infatti, l’articolo 10 primo comma Cost. dispone solo l’adattamento dell’ordinamento interno al diritto consuetudinario. Un trattato di cui non sia disposto l’adattamento non produce effetti nel nostro ordinamento giuridico. Nella prassi italiana esistono due modi per disporre l’adattamento: il procedimento speciale e il procedimento ordinario.
Mediante il primo, si dà piena e intera esecuzione al trattato nell’ordinamento interno tramite un atto normativo ad hoc. L’atto normativo contiene in allegato il testo del trattato nella lingua originale in cui è stato redatto. Qualora il trattato sia redatto in più lingue, e l’italiano non figuri tra le lingue autentiche, di regola si sceglie la lingua francese. Talvolta il testo del trattato è accompagnato da una traduzione, non ufficiale, in lingua italiana. Ma l’interprete, nel formulare la norma interna di esecuzione deve fare riferimento alla lingua in cui il trattato è stato redatto. La norma interna di esecuzione è frutto di un rinvio operato dall’interprete al testo del trattato. L’ordine di esecuzione dispone un rinvio formale dell’ordinamento interno all’ordinamento internazionale, con la conseguenza che ogni variazione che si produce nell’ordinamento internazionale, ad esempio per quanto riguarda i destinatari del Trattato, si produce automaticamente anche nell’ordinamento interno.
Il secondo modo di adattamento è il procedimento ordinario. Si riformulano le norme del Trattato, pertanto è un rinvio materiale. Non si ha una perfetta e continua aderenza tra ordinamento interno e ordinamento internazionale. Qualora il trattato si estingua nell’ordinamento internazionale, le norme interne di esecuzione sopravvivono ed è necessario un atto abrogativo per eliminarle.
Nel nostro ordinamento si preferisce, per motivi di celerità, fare ricorso all’ordine di esecuzione. Ma tale strumento è inoperante nei confronti delle norme del Trattato non self executing cioè di quelle norme non complete nel loro contenuto. Ad esempio in materia di crimini internazionali, i trattati di solito stabiliscono l’obbligo di punire il colpevole, ma non prescrivono la pena da comminare. In tal caso è necessario provvedere con procedimento ordinario.
Purtroppo il nostro legislatore fa spesso ricorso all’ordine di esecuzione, quando invece sarebbe necessario il procedimento ordinario. Per ovviare a questa difficoltà, e nello stesso tempo per non perdere i benefici dell’ordine di esecuzione, si è andata affermando la prassi di adottare un procedimento misto: ordine di esecuzione, accompagnato dall’adozione di disposizioni che diano attuazione nell’ordinamento interno alle norme non self executing del trattato. Ad esempio per la Convenzione sul disarmo oltre all’ordine di esecuzione sono state adottate delle norme che dispongono sanzioni per i trasgressori. Talvolta nella legge con cui viene disposto l’ordine di esecuzione vengono inserite disposizioni non strettamente necessarie per perfezionare l’adeguamento, ma in qualche modo connesse con il Trattato. In alcuni casi la scelta del modo di adattamento è obbligata, poiché il Trattato impone agli Stati di adottare determinate misure per la sua esecuzione. L’ordine di esecuzione può essere contenuto in una legge o in un atto regolamentare, da adottare con decreto.
La scelta dipende dalla potenzialità di produzione giuridica dei vari atti e si opera individuando l’atto normativo che sarebbe necessario. Se il trattato incide su materia disciplinata da legge o coperta da riserva di legge, l’ordine di esecuzione dovrà essere contenuto in una legge ordinaria. L’articolo 11 prevede una norma permissiva, nel senso che consente di disporre l’adattamento con legge ordinaria ai trattati contemplati nella disposizione, quantunque essi incidano su materie disciplinate da norme costituzionali. Verrebbero in considerazione tutti quei trattati che consentono, in condizione di parità con altri Stati, limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni. Tra questi il Trattato istitutivo delle Nazioni Unite. Le norme internazionali introdotte tramite ordine di esecuzione sono soggette al sindacato di costituzionalità. In caso di contrasto viene dichiarata incostituzionale la legge di esecuzione nella parte in cui immette nel nostro ordinamento norme contrarie alla Costituzione. Sono emendabili gli atti con cui nel nostro ordinamento viene dato rilievo al trattato internazionale?
Bisogna distinguere tra autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione, che di solito sono nello stesso disegno di legge. Quest’ultimo, nella parte relativa alla autorizzazione alla ratifica, è inemendabile, nel suo contenuto sostanziale. Qualora sia formulato un emendamento, significa che le Camere vogliono un Trattato diverso da quello negoziato. Pertanto l’esecutivo deve negoziare un nuovo testo, tranne che si possa superare l’ostacolo tramite la posizione di una riserva, in caso di trattato multilaterale. Al contrario il disegno di legge, nella parte relativa all’ordine di esecuzione, è un atto che è legge in senso formale e in senso materiale e quindi è emendabile.
Ma tale tesi può essere accettata solo se l’emendamento non produca una sfasatura dell’entrata in vigore del Trattato sul piano internazionale e sul piano interno o non abbia lo scopo di modificare il contenuto del trattato. Da notare che nel procedimento mediante ordine di esecuzione si finisce quasi sempre per derogare il normale termine di vacatio legis di 15 giorni dalla pubblicazione dell’atto in Gazzetta Ufficiale, disposto dall’articolo 10 delle preleggi. Le norme interne di esecuzione entreranno in vigore a partire dal momento di entrata in vigore del Trattato per l’Italia. Qualora l’adattamento abbia lo luogo con un procedimento misto anche la vacatio legis può essere mista. Nel nostro ordinamento l’adattamento avviene contemporaneamente o successivamente alla legge di autorizzazione alla ratifica del trattato. Nei Paesi di common law si segue di regola una procedura diversa, consistente nell’adottare prima la legge di esecuzione per poi procedere alla ratifica del trattato. Una procedura del genere, adottata nel nostro ordinamento, eviterebbe il problema delle norme non self executing.
Rango delle norme di adattamento al Diritto pattizio
Le norme interne immesse mediante l’ordine di esecuzione hanno nell’ordinamento nazionale “ il valore conferito loro dalla forza dell’atto che ne dà esecuzione”; hanno una particolare resistenza all’abrogazione o modificazione a causa di una legge successiva incompatibile. Sono norme derivanti da una fonte riconducibile ad una competenza atipica, come tale insuscettibile di abrogazione o modificazione da parte di disposizione di legge ordinaria. Qualora il legislatore volesse abrogare le norme interne di esecuzione dovrebbe farlo espressamente.
Pertanto l’eventuale contrasto tra norma prodotta mediante ordine di esecuzione e norma successiva dovrebbe essere risolto in via interpretativa, dando prevalenza alla prima. La migliore dottrina era giunta a questa conclusione in base al principio di specialità: le norme prodotte dall’ ordine di esecuzione sarebbero norme speciali, in quanto hanno a proprio fondamento la volontà dello Stato di rispettare il diritto internazionale. La materia è stata recentemente disciplinata dall’articolo 117, primo comma, Cost. come modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001 numero 3, secondo cui” la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Tale articolo ha un’incidenza sul rango delle norme immesse nel nostro ordinamento.
La disposizione stabilisce un limite alla potestà legislativa dello Stato, e la superiorità del Trattato sulla legge ordinaria con la conseguenza che una norma di legge contraria può essere annullata dalla Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale in due pronunce che avevano per oggetto le disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, si è espressa affermativamente, nel senso che il giudice non può disapplicare direttamente la norma interna in contrasto con la norma convenzionale, ma deve rinviare la questione alla Corte Costituzionale, allo scopo di controllare se la normativa interna sia conforme alla normativa convenzionale.
Secondo la Corte, la norma convenzionale immessa nel nostro ordinamento sarebbe norma interposta, da collocare cioè tra la legge ordinaria e la Costituzione, che integra il parametro costituzionale ma rimane a un livello sub costituzionale. A parere della Corte, il giudice deve interpretare la norma interna in conformità con la disposizione internazionale. Ma ove l’interpretazione non riesca a superare l’antinomia e il Giudice dubiti della conformità della norma interna al diritto internazionale, egli dovrà investire la Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale, la quale provvederà a dichiarare la nullità della norma interna. È tuttavia ragionevole far riferimento al meccanismo interpretativo per evitare lungaggini.
Le norme del Trattato immesse nel nostro ordinamento tramite legge ordinaria, a differenza delle norme consuetudinarie immesse tramite l’articolo 10, primo comma, Cost. non possono derogare la Costituzione, poiché l’articolo 117, primo comma, Cost. non conferisce loro il rango di norma costituzionale. Benché l’articolo 117 primo comma non sia una norma che disponga l’adattamento, secondo alcuni imporrebbe al legislatore di operarlo. Senza l’adattamento il Trattato non produce effetti nel nostro ordinamento. Si potrebbe ragionare in analogia con le direttive dell’Unione Europea non trasposte nel nostro ordinamento e non aventi efficacia diretta. Si potrebbe affermare che l’individuo, danneggiato dall’adempimento del legislatore, avrebbe diritto al risarcimento del danno, purché dalle norme del Trattato sia ricavabile con sufficiente precisione il contenuto dei diritti spettanti all’individuo. L’articolo 117 primo comma Cost. dispone la superiorità di qualsiasi norma del Trattato internazionale e non solo di quelli ratificati.
Infatti la legge 131 del 2003, di attuazione del dettato costituzionale, dispone che costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato quelli derivanti dai trattati internazionali. È stata omessa la dizione trattati internazionali ratificati che figurava nel disegno di legge: pertanto l’articolo 117 primo comma Cost. dispone la superiorità nei confronti della legge anche degli accordi in forma semplificata, salvo il limite dell’articolo 80 Cost. nel senso che l’accordo in forma semplificata non deve essere invasivo di materie disciplinate dalla disposizione costituzionale e costituirne quindi una violazione.
Mentre l’articolo 117, primo comma, Cost. si riferisce agli obblighi internazionali una ulteriore specificazione è contenuta nella legge del 2003 che afferma come i vincoli della potestà dello Stato siano costituiti dai vincoli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute di cui all’articolo 10 Cost., da accordi di reciproca limitazione della sovranità di cui all’articolo 11 Cost. , dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali. I limiti derivanti alla potestà dello Stato al fine di rispettare gli obblighi internazionali non impediscono che possa essere sollevato giudizio di costituzionalità per il contrasto dell’ordine di esecuzione con le norme costituzionali. Il legislatore, con la riforma del 2001, non ha inteso abdicare al controllo di costituzionalità. Le norme pattizie immesse non hanno rango costituzionale, diversamente dalle norme consuetudinarie immesse dall’articolo 10, primo comma, Cost.
La Corte costituzionale con sentenza 349 del 2007 ha specificato che le norme convenzionali nel nostro ordinamento non acquistano la forma delle norme costituzionali e non sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale. La Costituzione dispone poi la superiorità di una particolare categoria di trattati, cioè quelli che disciplinano lo status degli stranieri. Secondo l’articolo 10, comma 2, Cost. la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Pertanto una norma interna in contrasto con un trattato sulla condizione dello straniero sarebbe viziata di incostituzionalità. Sarebbero colpite da incostituzionalità quelle norme interne che imponessero obblighi allo straniero in contrasto con il Trattato e non quelle che conferissero un trattamento più favorevole. Non sembra invece che si debba assegnare una copertura costituzionale autonoma ai trattati in materia di diritti umani, argomentando ex articolo 2 Cost., secondo cui la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo.