applicazione e interpretazione della legge
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L’applicazione e l’interpretazione della legge

Le regole dell’interpretazione

L’indagine dell’interprete non può limitarsi alla lettera della legge specialmente quando questa si avvale di clausole generali come  buona fede, buon costume, equità, forza maggiore e simili. Queste espressioni obbligano ad una valutazione di specifica riferibilità al singolo caso, il quale nella sua concretezza e dinamicità è restio a farsi inquadrare nelle rigide e aprioristiche descrizioni delle fattispecie legali.

L’art. 12, comma 1, disp. prel. c.c. impone espressamente di valutare non soltanto il “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” (c.d. interpretazione letterale), ma anche la “intenzione del legislatore”.

Quest’ultimo concetto rimanda alla funzione che la norma persegue come strumento di disciplina della vita associata, la c.d. ratio legis (criterio di interpretazione teleologico). Si tratta quindi di ricercare la finalità obiettiva della norma, tenendo conto della materia regolata, dei risultati perseguiti dalla legge e dei valori del sistema giuridico.

A tal fine si possono utilizzare anche i “lavori preparatori” delle leggi, i quali però offrono soltanto indicazioni di massima non decisive.

Soprattutto va detto che l’individuazione dello scopo della legge (della sua ratio) più che la premessa della interpretazione ne rappresenta già un risultato, che tuttavia aiuta a individuare tra i plurimi possibili significati del testo quello che appare più coerente con la funzione della norma.

Esistono inoltre molti altri criteri a cui l’interprete può fare riferimento, e che possono, con qualche semplificazione, così schematizzarsi:

  • il criterio logico, attraverso l’argumentum a contrario (volto ad escludere dalla norma ciò che non è espressamente compreso), l’argumentum a simili (volto ad estendere la norma anche a fenomeni simili a quelli derivanti dal contenuto letterale della disposizione, assumendo tale similarità come determinante per una identità di disciplina), l’argumentum a fortiori (volto ad estendere la norma a fenomeni che a maggior ragione meritano il trattamento riservato a quello proveniente dal contenuto letterale della disposizione), l’argumentum ad absurdum (volto ad escludere quella interpretazione che dia luogo ad una norma “assurda”);
  • il criterio storico: nessuna disposizione spunta all’improvviso in un ordinamento; l’analisi delle motivazioni con cui un istituto è stato introdotto in un sistema giuridico precedente, delle modifiche che esso ha via via subito, del modo con cui è stato interpretato ed applicato, è cruciale per cogliere la portata che ad una disposizione va assegnata nel momento attuale;
  • il criterio sistematico. Per definire il significato e la portata di una disposizione è essenziale collocarla nel quadro complessivo dell’ordinamento in cui va introdotta, onde evitare contraddizioni, ripetizioni, e istituire opportuni coordinamenti;
  • il criterio sociologico: la conoscenza degli aspetti economico sociali dei rapporti regolati è spesso utile per una interpretazione che sia congruente con la realtà disciplinata;
  • il criterio equitativo: volto ad evitare interpretazioni che contrastino con il comune senso di giustizia, favorendo anzi soluzioni equilibrate degli interessi in conflitto e che l’interprete deve sempre valutare comparativamente.

L’analogia

È impossibile che il legislatore riesca a disciplinare ogni aspetto dell’esperienza umana, per quanto possa essere attento e scrupoloso; inevitabilmente si presenteranno casi che nessuna norma di legge ha espressamente previsto e regolato, le c.d. lacune dell’ordinamento.

Il problema delle lacune non può essere risolto semplicemente prevedendo ogni singolo caso possibile.

Inoltre l’evoluzione scientifica, tecnica, sociale, economica crea costantemente situazioni materiali nuove, che nessuna norma ha potuto prevedere.

Il giudice, quindi, si trova spesso e inevitabilmente di fronte a fattispecie concrete che nessuna norma positiva prevede e disciplina. Ciò nonostante, non può rifiutarsi di decidere, rendendosi responsabile di denegata giustizia, omettendo un atto del proprio ufficio.

Perciò l’art. 12, comma 2, delle preleggi dispone che il giudice, quando non sia riuscito a risolvere il caso su cui deve pronunciarsi, né applicando una norma che lo contempli direttamente, né applicando una norma che pur non contemplandolo direttamente possa essere interpretata estensivamente fino ad abbracciarlo, deve procedere applicando “per analogia” le “disposizioni che regolino casi simili o materie analoghe”, e qualora il caso rimanga ancora dubbio, applicando “i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.

Dunque il procedimento analogico consiste nell’applicare ad un caso non regolato una norma non scritta desunta da una norma scritta, la quale, però, è dettata per regolare un caso diverso, sebbene “simile” a quello da decidere.

L’elemento di contatto, unificante, tra le due fattispecie messe a confronto deve consistere nella fondamentale giustificazione della disciplina del caso: l’identità di quell’elemento ci fa concludere che pure il caso non regolato merita di essere assoggettato al regime previsto per quello espressamente considerato dalla legge.

Dunque, l’analogia si fonda su un’identità di ratio, ossia sul riconoscimento di una finalità della norma positiva che ne giustifica l’operare anche nel caso simile, ma non contemplato dalla legge.

L’art. 12 cpv. delle preleggi autorizza non solo il ricorso alla analogia legis, ossia all’applicazione in via analogica ad un caso non regolato di singole disposizioni ritenute adatte a regolare quella fattispecie, ma anche, se il caso rimane ancora dubbio perché non si rinviene nell’ordinamento una norma analogicamente ad esso applicabile, il ricorso alla analogia iuris, ossia ai “princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. In questo caso la decisione viene presa ricavando una norma (non scritta) estrapolando la regola solutoria del caso “dubbio” dai generali orientamenti del sistema legislativo.

Il ricorso all’analogia è sottoposto a limiti: non è consentito né per “le leggi penali”, né per “quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi” (art. 14 disp. prel.).

Il divieto si giustifica, in relazione alle norme penali, per il principio di stretta legalità che caratterizza le norme incriminatrici: “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto compiuto”: art. 25, comma 2, Cost. Il divieto riguarda le sole norme incriminatrici o, comunque, volte a stabilire un trattamento più severo per il reo.

In relazione alle norme che abbiano carattere di eccezione, ossia di deroga, a precetti di ordine generale (norme eccezionali), il divieto di analogia si giustifica con la necessità logica di non ampliare le deroghe, privilegiando nei casi non regolati la disciplina generale.

Il divieto dell’analogia nell’applicazione delle leggi penali ed eccezionali non vale per l’interpretazione estensiva, con la quale ci si limita ad adeguare la portata letterale della norma all’effettiva volontà legislativa.

Tuttavia, distinguere tra un’interpretazione estensiva di una norma eccezionale (consentita) e un’applicazione per analogia (vietata) può essere estremamente difficile nel singolo caso; inoltre, spesso non è facile determinare se una norma abbia carattere eccezionale, rendendola non suscettibile di interpretazione analogica.

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Riferimenti:

  • Torrente, Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, XXV ed.

Fonti normative:

  • Artt. 12 e 14 Disposizioni preliminari al Codice civile o preleggi;
  • art. 25 Cost. ;
  • art. 360 bis c.p.c. ;
  • sentenza Corte costituzionale 7 gennaio 2000, n. 1.