difese del convenuto
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Le difese del convenuto

La costituzione del convenuto

Il convenuto si costituisce a mezzo di procuratore (o personalmente nei casi consentiti dalla legge), ex articolo 166 c.p.c., depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente la comparsa di cui all’articolo 167 c.p.c. con copia della citazione notificata, la procura e i documenti che offre in comunicazione. Le modalità di costituzione del convenuto non differiscono nella sostanza da quelle previste per la costituzione dell’attore.
La costituzione è tempestiva quando avviene nei termini di cui all’articolo 166 cioè almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione.

La comparsa di costituzione e risposta

Nella comparsa di risposta il convenuto deve: proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare le proprie generalità e il codice fiscale, i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le conclusioni.

Il comma 2 aggiunge che egli, a pena di decadenza, deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Il comma 3 aggiunge che Il convenuto se intende chiamare un terzo in causa deve farne dichiarazione nella stessa comparsa.
La rilevanza della tempestività della costituzione si apprezza considerando che l’articolo 167 c.p.c. descrive alcuni elementi che il convenuto deve inserire a pena di decadenza nella comparsa di risposta tempestivamente depositata.

Mere difese ed eccezioni

Rispetto alla domanda proposta nei suoi confronti il convenuto può assumere più posizioni. Egli ha innanzitutto la libertà di scegliere di costituirsi o restare estraneo al processo non costituendosi affatto, in contumacia.
Una prima forma di difesa del convenuto è la contestazione dei presupposti o delle modalità del processo che lo vede convenuto. Per esempio egli si difende asserendo che il giudice adito è incompetente. In tal modo il convenuto solleva la questione, introduce una eccezione processuale o eccezione di rito, ma senza affrontare il merito della controversia; l’altra possibilità difensiva riguarda il merito della controversia (il convenuto chiede il rigetto della domanda perché il diritto non è mai sorto).

Il convenuto può anche cumulare tra loro contestazioni riguardanti, per esempio, il fatto che il giudice adito non è competente e la contestazione del diritto vantato dall’attore.

Sul piano del merito la forma più elementare di contestazione è la semplice contraddizione delle altre affermazioni esposte dall’attore. Così si espleta una mera difesa.
Il convenuto può introdurre nel processo fatti diversi da quelli dedotti dall’attore, idonei, se provati, ad ottenere il rigetto della domanda. Di fronte a fatti costitutivi posti a fondamento della domanda egli potrà desumere fatti idonei a valere come estintivi del diritto, modificativi o impeditivi dell’accoglimento della pretesa. Il convenuto, quindi, solleva una eccezione di merito.

Con un fatto estintivo si intende il fatto idoneo a determinare il rigetto della domanda perché idoneo ad estinguere il diritto preteso, è il caso dell’adempimento di un’obbligazione. Per fatto modificativo si intende il fatto che pur non contraddicendo l’esistenza del diritto vantato ne modifica però i termini di accoglibilità. (nell’azione del venditore di pagamento del prezzo non versato il compratore oppone i vizi della cosa che gli danno diritto ad una riduzione del prezzo). Per fatto impeditivo si intende il fatto che blocca l’accoglimento della domanda perché mostra l’incompletezza della fattispecie del diritto azionato. Per esempio l’aver agito per legittima difesa.
Nel caso di mera difesa il convenuto sostiene che quel fatto non è avvenuto, nel caso di eccezione invece sostiene che quel fatto non è venuto perché ne è avvenuto un altro.

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La domanda riconvenzionale

La proposizione di una eccezione arricchisce il materiale di causa, la cosiddetta materia del contendere, non però l’ambito dell’accertamento che resta confinato al diritto dedotto. L’eccezione allarga, infatti, l’oggetto della cognizione del giudice ma non sposta l’oggetto del processo.

Il convenuto, invece, può sfruttare il processo in corso per contraddire, cioè formulare una controdomanda. Egli può chiedere l’accertamento, in via riconvenzionale, di propri diritti distinti dal diritto dedotto in domanda. Può non accontentarsi di domandare il rigetto della domanda originaria bensì chiedere una pronuncia a proprio favore su un diritto non ricompreso nell’ambito del giudizio specificato dalla domanda dell’attore; un diritto che in astratto egli avrebbe potuto tutelare in via di azione autonoma, ma che, date le circostanze, può essere giudicato nel processo in corso.

Per esempio, a fronte di una domanda di adempimento in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, il convenuto contrappone in via riconvenzionale domanda di risoluzione del contratto per inadempimento dell’attore. Quindi il processo acquista un ulteriore oggetto.

Eccezioni rilevabili d’ufficio e eccezioni non rilevabili d’ufficio

Nella comparsa di risposta tempestiva vanno proposte, a pena di decadenza, anche le eccezioni processuali di rito e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Il giudice può e deve prendere in considerazione il fatto impeditivo, modificativo ed estintivo indipendentemente dalla apposita richiesta del convenuto di tenerne conto. Viceversa, quando l’eccezione non è rilevabile d’ufficio il fatto non potrà essere autonomamente considerato dal giudice. Così distinguiamo la prima categoria dalla seconda.
Per esempio, in tema di prescrizione l’articolo 2938 c.c. stabilisce che il giudice non può rilevare d’ufficio la prescrizione non opposta.

Il convenuto che si è difeso in giudizio, ma non ha tempestivamente specificato di volersi avvalere della prescrizione impedisce al giudice di dare rilievo al decorso del tempo pur risultante dagli atti.
Talora, invece, il codice civile prescrive che una data eccezione può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Spesso, però, la legge non prende esplicita posizione sul regime di rilevabilità delle eccezioni, lasciando all’interprete il relativo problema. Si ritiene generalmente che il giudice possa, di sua iniziativa, considerare ai fini della decisione i fatti costituenti eccezioni non espressamente riservate dalla legge alla parte.

La regola della rilevabilità d’ufficio in assenza di diversa prescrizione di legge non è tuttavia assoluta, con l’ovvia conseguenza della impossibilità del giudice di sostituirsi alla libera scelta di questa. In sintesi: in taluni casi la soluzione è offerta dalla legge che specifica se l’eccezione è rilevabile d’ufficio o su istanza di parte; dove la legge non si pronuncia, in linea di principio, le eccezioni di merito sono rilevabili d’ufficio; fanno però eccezione alla rilevabilità d’ufficio i casi in cui l’eccezione manifesta un diritto potestativo che la parte è libera di esercitare o meno.
L’eccezione è in senso stretto perché il giudice non può sostituirsi all’interessato, un esempio di quest’ultima categoria è proprio la prescrizione.

Le eccezioni processuali

La regola della generale rilevabilità d’ufficio dell’eccezione attiene specificatamente alle eccezioni di merito, relative cioè ai rapporti sostanziali oggetto di giudizio.
Ma l’articolo 167 fa riferimento anche alle eccezioni processuali: il termine ultimo assegnato al convenuto per eccepire, a pena di decadenza, riguarda tanto le eccezioni di merito non rilevabili d’ufficio, quanto le eccezioni processuali anche se non rilevabili d’ufficio. Le eccezioni processuali mettono in discussione la regolarità del processo stesso; possono riguardare un vizio dei cosiddetti presupposti processuali.

Possiamo fissare due categorie di eccezioni processuali o di rito. Si tratta di eccezioni che riguardano il cosiddetto presupposto processuale, cioè i prerequisiti del procedere.
In mancanza di taluno di questi presupposti, la macchina del processo non potrebbe incominciare. Ad esempio trattasi della carenza di giurisdizione e dell’incompetenza.
Un’altra categoria di eccezioni processuali riguarda la denuncia di vizi di forma degli atti. Dobbiamo distinguere tra eccezioni di rito, nullità formale e eccezioni relative ai presupposti esterni del processo, nullità extraformali.

L’eccezione di difetto di giurisdizione

L’art. 37 regola innanzitutto il rilievo del difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, cioè della carenza di potere connotato quale limite esterno alla potestà giurisdizionale. Si parla pertanto di difetto assoluto di giurisdizione che ha luogo allorché non spetta al potere giurisdizionale pronunciare il provvedimento richiesto poiché l’ordinamento riserva ad altri poteri dello Stato la conoscenza e la decisione delle relative situazioni e questioni. In tal caso, la decisione degli organi della giurisdizione produrrebbe una indebita ingerenza nella ripartizione delle funzioni degli organi pubblici. Si tratta quindi di un limite di attribuzione dello stesso potere giurisdizionale, cosa che, per es., si verifica allorché si domandi al giudice di sostituirsi all’amministrazione nell’emettere provvedimenti amministrativi, ovvero gli si chieda di sindacare atti di natura politica.

L’art, 37 stabilisce che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo. L’eccezione può quindi proporsi in ogni momento perché il relativo potere non è soggetto a preclusioni o decadenze.

Accanto al difetto assoluto di giurisdizione si ha il c.d. difetto relativo di giurisdizione, cioè il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti di altri ordini di giudici. Esso può vedersi come l’effetto dei limiti interni alla funzione giurisdizionale, funzione appunto distribuita tra il giudice ordinario e i vari ordini di giudici speciali previsti nell’ordinamento (nonché tra i giudici speciali). II difetto relativo di giurisdizione è detto anche talora difetto di giurisdizione-competenza, data la sua assimilazione concettuale al tema della ripartizione della competenza.

In proposito l’art. 37 stabilisce che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo e degli altri giudici speciali è rilevabile anche d’ufficio ma, a differenza del difetto assoluto di giurisdizione, limitatamente al giudizio di primo grado. Nei giudizi di impugnazione, il difetto relativo di giurisdizione “può essere rilevato solo se oggetto di specifico motivo”. Questo vuol dire (non solo che, in caso di pronuncia espresso sull’eccezione di giurisdizione, il relativo capo potrà essere espressamente appellato, ma anche) che la sentenza sarà appellabile per ragioni attinenti alla giurisdizione anche se essa non si sia affatto pronunciata sul punto di giurisdizione del giudice adito.

Il difetto di giurisdizione nei confronti di giudici stranieri può invece essere rilevato, in qualunque stato e grado, “soltanto dal convenuto costituito che non abbia espressamente o tacitamente accettato la giurisdizione italiana”. In questo senso dispone l’art. 11 l. n. 218/1995 che consente la rilevazione d’ufficio (sempre in ogni stato e grado) se il convenuto è contumace, se si tratti di azione reale avente ad oggetto beni immobili situati all’estero, se la giurisdizione italiana sia esclusa per effetto di norma internazionale.

In nessun caso l’eccezione di carenza di giurisdizione potrebbe essere sollevata dall’attore, per la semplice ragione che egli stesso ha individuato nel giudice adito l’organo munito di giurisdizione: la cosa si ricava agevolmente dall’art. 157 c. 3 secondo cui la nullità “non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né dalla parte che vi ha rinunciato anche tacitamente”. Si tratta dell’espressione di un più generale “principio di autoresponsabilità” delle parti, che non consente di far valere a proprio favore i vizi del processo provocati dal proprio agire. L’art. 37 conferma tale ovvio principio specificando che “l’attore non può impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito”.

Regolamento di giurisdizione

“Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado” l’art. 41 consente a ciascuna delle parti di chiedere alle sezioni unite della Corte di cassazione che risolvano in via definitiva le questioni di giurisdizione emerse nel giudizio. Non è un mezzo di preventiva contestazione di decisioni, ma di risoluzione preventiva delle questioni di giurisdizione non ancora decise, a differenza del regolamento di competenza che serve ad impugnare le pronunce che hanno già deciso sulla competenza.

L’espressione “finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado” dell’art. 41, c. 1, indica che il regolamento di giurisdizione si colloca nel giudizio di primo grado: una volta definito questo, la pronuncia conclusiva sarà eventualmente impugnabile per ragioni inerenti alla giurisdizione, ma tramite un altro meccanismo.

L’esclusione del potere dell’attore di rilevare il difetto di giurisdizione non significa che l’attore non possa proporre egli stesso ricorso per regolamento. Una cosa infatti è introdurre in giudizio la questione (l’eccezione) di giurisdizione, un’altra è chiedere alla Corte di cassazione di decidere di una questione già sollevata (dal convenuto o d’ufficio). In tal caso la questione viene considerata già comune alle parti e acquisita al giudizio, onde anche l’attore può ben avere interesse ad una soluzione che elimini definitivamente un’incertezza sulla giurisdizione.

Si tratta, d’altra parte, di uno strumento “preventivo” di soluzione della questione di giurisdizione (non di un mezzo di impugnazione).

La decisione sulla giurisdizione della Corte di cassazione è determinata dall’oggetto della domanda e, “quando prosegue il giudizio, non pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda” (art. 386).

L’istanza di regolamento si propone con ricorso rivolto alla Corte di cassazione; proposto ricorso per regolamento di giurisdizione, il giudice davanti a cui pende la causa, con ordinanza sospende il processo se non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata.

La norma è stata modificata con la l. n. 353/1990 che ha sostituito il precedente regime della sospensione obbligatoria del processo, che si era rivelato un potente meccanismo dilatorio per la parte che intendeva trarre lucro dall’allungamento dei tempi del processo. La sospensione necessaria metteva in ginocchio l’attore che vedeva bloccata la trattazione della propria domanda spesso per lungo tempo. Si è quindi considerevolmente ridotto l’abuso del regolamento.

Il regolamento di giurisdizione si propone con ricorso rivolto alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, cioè alla Corte nella sua peculiare formazione di collegio allargato inteso a dare particolare autorevolezza al responso; il ricorso è deciso con la modalità della “camera di consiglio”.  Il provvedimento reso sul regolamento determina, quando occorre, quale giudice è munito di giurisdizione sulla causa (art. 382 c. 1). Se la Corte di cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, le parti debbono riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza (art. 367 c. 2).

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Riferimenti:

  • Sassani, Lineamenti del processo civile italiano, Giuffrè, 2023

Fonti normative:

  • Codice di procedura civile: artt. 37, 41, 157, comma 3, 166, 167, 367, comma 2, 382, comma 1, 386
  • Codice civile: art. 2938
  • l. n. 353/1990
  • art. 11 l. n. 218/1995