Lavoro, persona, cittadinanza nell’impianto costituzionale
L’origine delle regole del rapporto di lavoro presenta alcune peculiarità derivanti dalle caratteristiche della subordinazione. Un marcato tratto di specificità nell’assetto delle fonti del diritto del lavoro è il contratto collettivo, elemento proprio del diritto del lavoro, il quale presenta un problematico inquadramento teorico-sistematico.
Bisogna partire, ad ogni modo, dalla Costituzione, in cui si ritrovano le ragioni interne dell’origine delle regole lavoristiche. Il lavoro occupa una posizione principale all’interno della Costituzione (artt.1 e 4) ed è un fondamento della Repubblica democratica.
Con l’avvio dell’era industriale, il lavoro assume il ruolo di interlocutore dei possessori di capitale e delle strutture produttive e quindi protagonista della questione sociale, e a seguito dei conflitti mondiale del ‘900, diventa vero motore della ricostruzione economica, sociale e cultura del Paese.
L’art.4 Cost. Definisce una duplice valenza del lavoro: individuale e relazionale. Nel comma 1 si evince il diritto di libera scelta del lavoro, il diritto a una serie di prestazioni pubbliche funzionali all’occupazione e altre istanze di tutela; nel comma 2 si sottolinea il dovere di svolgere un’attività che concorra al progresso materiale e spirituale della società.
Il lavoro è anche una componente essenziale della “cittadinanza” come segnale dell’appartenenza dell’individuo alla comunità statuale.
La tutela del lavoro è poi specificata “in tutte le sue forme ed applicazioni” dall’art. 35; lo stesso è poi investito da un altro principio fondamentale, ovvero l’eguaglianza sostanziale (art.3 co.2). Esso è il fulcro dei diritti sociali, ovvero quelle situazioni soggettive attraverso le quali lo Stato attua la funzione equilibratrice e moderatrice delle disparità sociali.
La condizione di debolezza del lavoratore si riscontra generalmente nel contratto di lavoro subordinato, il soggetto è in una situazione di dipendenza socio-economica e mette a disposizione le proprie energie lavorative a favore di un altro soggetto.
Pertanto, l’obiettivo del nostro ordinamento è promuovere una precisa concezione del lavoro allo scopo di “assicurare il pieno sviluppo della persona umana e la sua partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art.3 comma 2).
La priorità della Costituzione nella prospettiva esterna e interna
Considerando una prospettiva esterna, emblematico è il raffronto della Costituzione con l’ordinamento europeo. È indiscussa la limitazione della sovranità nazionale (come espresso dall’art.11) e a questa va contrapposta la “teoria dei controlimiti” che pone un confine invalicabile anche per le fonti “esterne”, quindi europee, rappresentato dai principi fondamentali dell’ordinamento. Tuttavia va segnalato che la prospettiva di integrazione tra l’ordinamento nazionale e quello europeo presenta spesso problematiche e incompatibilità, soprattutto a causa dell’impostazione dell’ordinamento europeo (quindi della Corte di Giustizia) che talvolta ha messo in discussione principi per l’ordinamento interno imprescindibili, come ad esempio il principio di libertà sindacale (art.39).
In una prospettiva interna si nota che il diritto del lavoro viene a rappresentare una delle manifestazioni più importanti della Costituzione economica. Infatti ha lo scopo di consentire al lavoratore, che versa in una situazione di debolezza socio-economica, di integrarsi realmente come persona nella società e, quindi, di attivarsi come cittadino.
La Costituzione ha tracciato una duplice linea di tutela del lavoro: statica, ovvero attraverso tutele dirette, il cui contenuto è già delineato normativamente (ad esempio: il diritto alla retribuzione art.36) e dinamica, mediante il soggetto collettivo-sindacale (espressamente indicato negli artt. 39 e 40) il cui scopo è definire gli interessi e gli assetti da perseguire per il lavoratore.
A ragione di ciò il contratto collettivo è emblematica espressione del pluralismo sociale. La componente sindacale viene quindi ad assumere un rilievo di primissimo piano, mediante la quale il contratto collettivo diventerà uno strumento per contemperare esigenze di tutela di lavoro e di produttività dell’impresa e che svolgerà il compito di produzione dinamica delle regole del lavoro.
Tale contratto è la migliore tecnica per garantire tutela del lavoro e dell’impresa.
Subordinazione, organizzazione, inderogabilità
Nel corso degli anni si è assistito ad un ampliamento e una intensificazione delle tutele del lavoro subordinato, culminato nella seconda metà degli anni ’60 con lo Statuto dei lavoratori (legge 300/1970).
Tale percorso ha incrociato una delle caratteristiche principali delle norme lavoristiche, ossia l’inderogabilità unilaterale, a protezione del soggetto debole del rapporto, divenuta la più immediata e concreta espressione giuridica dell’intervento dell’ordinamento diretto alla regolazione dei vari aspetti del rapporto di lavoro e che ha restituito al lavoratore la propria identità di persona, nonché garanzia all’eguaglianza.
In altre parole, tale inderogabilità delle tutele previste dal diritto del lavoro riflette direttamente l’istanza di protezione del contraente debole nella tutela dei valori costituzionali fondamentali di lavoro-persona-cittadinanza.
Inoltre tale inderogabilità assolve anche allo scopo, di minor rilievo ma non per questo trascurabile, di definire il quadro di regole per la leale concorrenza tra imprese, per evitare un’eventuale tentazione di competizione al ribasso sulle condizioni di lavoro.
Dal rilievo generale dell’inderogabilità derivano due conseguenze. La prima è che il diritto del lavoro, mediante l’inderogabilità, ha definito la differenza rispetto al diritto comune dei privati, dato che quest’ultimo si concentra maggiormente sul principio dell’autonomia negoziale individuale, anche quando vi è una forte attenzione alla tutela della parte debole del contraente (ad esempio: la nullità a favore del consumatore). Infatti, a differenza del diritto del lavoro, l’inderogabilità non è un tratto intrinseco della norma del diritto privato, ma è frutto di una specifica previsione del legislatore.
La seconda conseguenza è che l’inderogabilità unilaterale trova applicazione sull’intero sistema di produzione delle regole del lavoro e finisce per estendersi alla legge e quindi al contratto collettivo.
Dalla rimozione dello squilibrio tra le parti del contratto ne deriva un necessario contemperamento tra lavoro e impresa, nel quale l’intervento dello Stato è fondamentale per delimitare l’azione economica allo scopo di favorire, appunto, il contemperamento dei principi nelle relazioni di lavoro.
Bisogna quindi contemperare i principi che vengono in rilievo.
È importante sottolineare quindi il vincolo derivante dall’inderogabilità del diritto del lavoro: cioè la indisponibilità del tipo. Da ciò ne deriva che il “tipo” contrattuale si presenta rigido nei confronti delle parti; esse non possono apportare modifiche e integrazioni e sono proibiti schemi “atipici”. Pertanto, il vincolo del legislatore consiste nel rispetto dei principi, diritti e garanzie costituzionali in materia di lavoro. Quest’ultimo non ha la possibilità di attribuire alle parti la facoltà di escludere, mediante dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori, la quale, appunto, deve essere sottratta alla disponibilità delle parti.
Legislazione speciale e attuazione costituzionale
La fonte di diritto oggettivo della regolazione del contratto di lavoro è la legge. Essa ha un carattere inderogabile “in peius”, cioè in mancanza di diversa esplicita indicazione normativa, essa non può essere modificata in senso peggiorativo per il lavoratore, a cui deve essere garantita una tutela minimale.
Sul piano tecnico, la legge prevale sulla pattuizione difforme individuale, sostituendola con le generali regole in materia dei contratti, secondo vari articoli fondamenti del codice civile.
Inoltre, assistiamo un progressivo sviluppo del ruolo della legge, in cui in primo luogo il legislatore ha provveduto ad ampliare le tutele minimali e a disciplinare una serie di specifici rapporti di lavoro, e poi, mediante lo Statuto dei lavoratori, si è mirato a creare un “contrappeso” sindacale al potere assoluto dell’imprenditore in azienda dando maggiore forza ad alcune posizioni individuali del lavoratore.
In questo senso, lo Statuto pone in evidenza la centralità della realtà effettuale dei rapporti di forza nei luoghi lavorativi. Infatti, l’art.18 dello Statuto, sottolinea l’importanza della protezione contro il licenziamento, segnando la massima distanza dal codice civile, il quale è poco attento alla situazione di subordinazione del lavoratore, dato che prevede la libera recedibilità, la quale è vista come arma a favore del datore di lavoro.
Perciò, il legislatore statutario si è posto l’obiettivo di rafforzare gli interessi del lavoratore per raggiungere l’equilibrio del contratto di lavoro e per consentire al lavoratore di esprimere sé stesso come “persona” all’interno dell’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Il lavoratore ritrova il senso della moderna cittadinanza.
Con la crisi petrolifera del 1973 e l’avvio della “legislazione d’emergenza”, cambiano gli scenari economici e i contesti culturali; il tratto distintivo di questo periodo sarà dato dalla flessibilità, intesa come una riduzione dei vincoli alle scelte e ai poteri del datore del lavoro. Infatti, il filo conduttore non sarà più la tutela del lavoratore, come visto nei decenni precedenti, ma al più ci si concentrerà sul contenimento del costo del lavoro a sostegno delle imprese in crisi e ai relativi processi di ristrutturazione, sino ad arrivare all’ampliamento delle figure contrattuali e alla riduzione della spesa previdenziale.
Secondo alcuni maggior flessibilità significa appunto minore tutela del lavoratore, ma può significare anche maggior possibilità di impiego per coloro che sono privi del lavoro. Tuttavia, empiricamente, tale tesi sarà rigettata a partire dall’esperienza italiana, che ha visto tassi bassi e alti di disoccupazione a parità di livelli di tutela.
Negli ultimi anni, a seguito della difficilissima situazione economica, assistiamo ad un indebolimento fattuale dell’inderogabilità, come è avvenuto mediante il “Jobs act”, che ha introdotto regole riguardanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro e il licenziamento ingiustificato nel contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Infatti, il carattere flessibile della disciplina del contratto a termine e la compressione della tutela reale per il licenziamento ingiustificato, indeboliscono sensibilmente la posizione del lavoratore circa la possibilità di mantenere il proprio impiego lavorativo, sacrificando le regole poste a sua tutela, e quindi l’inderogabilità.
La declinazione della relazione legge-contratto collettivo
Vi sono tre aspetti della tecnica normativa da considerare, relativi al rapporto legge-contratto collettivo.
Il primo aspetto riguarda i frequenti rinvii della legge al contratto collettivo, cioè a quelle ipotesi in cui al contratto collettivo sono eccezionalmente attribuiti poteri derogatori “in peius” per i lavoratori rispetto a quanto disposto dalla legge. Questa tecnica è definita “garantismo collettivo”, che riguarda vari aspetti del rapporto di lavoro, come per esempio: la retribuzione all’orario, mutamento di mansioni al trattamento in caso di trasferimento di azienda, ecc. A tale tecnica di contrattazione collettiva il legislatore ricorre per trovare soluzioni tempestive ed adeguate a differenti contesti.
Il secondo aspetto riguarda il modello di relazioni tra poteri pubblici e parti sociali, improntato a una stretta collaborazione, cioè la concertazione: un metodo utilizzato dall’azione politica volto alla
ricerca del massimo consenso possibile delle parti sociali, contraddistinto da un sostanziale coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle politiche economica.
Negli ultimi anni tuttavia, col mutare degli scenari politici, la concertazione, definita poi neocorporativa, ha perso il suo ruolo importante, sino a sparire del tutto.
Il terzo aspetto riguarda il limite posto dal legislatore alla contrattazione collettiva, configurato un’inderogabilità “bilaterale” della norma legale, che esclude qualsiasi tipo di modifica ad opera dell’autonomia negoziale, seppur in favore del lavoratore. L’intento è, in questo caso, di affrontare alcune problematiche economiche mediante l’introduzione di politiche dei redditi volte a contenere i costi del lavoro, oppure politiche volte a rendere maggiormente flessibili gli impieghi lavorativi. La Corte costituzionale ha dichiarato legittima questa compressione bilaterale dell’autonomia collettiva laddove si verifichi una reale esigenza di salvaguardia di interessi generali e laddove tale compressione sia temporanea.
La centralità del contratto collettivo
L’importanza del ruolo del contratto collettivo è testimoniata già dal XIX secolo, quando si coglie pienamente l’importanza dell’aggregazione collettiva dei lavoratori, al fine della determinazione di una componente centrale dei rapporti di lavoro, cioè la retribuzione.
Nella Costituzione trova una sua centralità e il contratto collettivo esprime la sua connotazione individuale e collettiva. La contrattazione collettiva racchiude le caratteristiche della libera attività sindacale (art.39 Cost) e viene ad essere uno strumento volto a compensare la debolezza del singolo lavoratore che si colloca al di là del singolo e della sua autonomia negoziale, poiché è necessaria un’adeguata efficacia sul piano soggettivo (con la produzione di vincoli nei confronti della generalità dei lavoratori interessati, la c.d. efficacia “erga omnes”) e oggettivo (cioè la sostituzione automatica nei confronti delle difformi pattuizioni individuali, la c.d efficacia reale) allo scopo di garantire la tutela del lavoratore.
Infatti, nella seconda parte dell’art.39 vi è un’espressa previsione dell’efficacia nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria riferita, così da proiettare i contratto collettivo sul piano delle fonti del diritto. Tuttavia quest’ultima parte dell’art.39 non troverà mai attuazione, e a ciò conseguiranno la ricostruzione privatistica dell’autonomia collettiva e l’inquadramento del contratto collettivo negli schemi del diritto comune, che evidenzieranno problemi di conciliazione con alcune delle caratteristiche del contratto stesso, come appunto l’applicazione generale a tutti gli interessati. Tuttavia si riuscirà a risolvere tale problematica, e a regolare una pluralità di rapporti anche tra soggetti diversi rispetto a coloro che stipulano gli stessi contratti.
Riguardo l’efficacia “erga omnes” dei contratti si cercherà una soluzione basandosi sull’effettività delle relazioni che le parti sociali riusciranno di fatto a sviluppare facendo perno sull’unità delle confederazioni sindacali, le quali sono giunte a darsi, per la prima volta, un quadro di regole sul funzionamento della rappresentanza sindacale: “Testo Unico sulla rappresentanza” (2014).
L’inderogabilità unilaterale del contratto collettivo da parte del contratto individuale non sarà mai messa in discussione non sarà mai messa in discussione.
Molta più incertezza sussiste invece nel rapporto tra contratti collettivi di diverso livello a causa dell’accentuarsi della tendenza al decentramento dell’attività contrattuale, che ha generato un’articolazione ulteriore dei contenuti dei contratti collettivi e quindi una configurazione di diverse figure contrattuali. Inoltre, va segnalata la nuova figura di contratto collettivo “di prossimità” (trattata più avanti) che attribuisce il potere di derogare alla legge e al contratto collettivo nazionale, anche “in peius” e con efficacia generale. Ciò ha posto dubbi di legittimità costituzionale
Il ruolo del contratto individuale
Riguardo il ruolo del contratto individuale, si noti come inizialmente il contratto rispondeva a intenti conservatori e legittimava l’autocrazia aziendale, piegandolo alla funzione di strumento di costrizione. Successivamente la concezione contrattualistica assumerà un’altra valenza. La critica a questa concezione sfocerà nelle c.d “Teorie istituzionalistiche-comunitarie” in cui il rapporto di lavoro trarrebbe origine dall’inserimento del lavoratore nell’impresa (istituzione contraddistinta da una comunione di scopo tra il datore di lavoro e il lavoratore).
Questa impostazione è in sintonia con l’ideologia corporativa così da sembrare accolta nel codice civile che: regolerà la subordinazione nel Titolo II “Del lavoro nell’impresa” anziché nel libro IV delle obbligazioni (dove trovano disciplina i più rilevanti contratti di scambio) e inserirà la prestazione di lavoro nell’impresa, intesa come struttura gerarchica, funzionalizzata all’interesse superiore della produzione nazionale.
Il contratto assume, quindi, la funzione di delimitare la posizione delle parti. Esso si sviluppa anche in funzione dell’eteronomia,
Per ciò che riguarda questo aspetto è opinione prevalente che grazie all’eteronomia il contratto non sia più di esclusivo dominio della volontà delle parti, prestandosi a contenere anche regole provenienti da altre fonti in ragione della pluralità delle esigenze da soddisfare.
Per quanto riguarda, invece, le caratteristiche della subordinazione e gli speculari poteri del datore del lavoro, la dottrina ne ha affermato la compatibilità con lo schema contrattuale. Il potere direttivo del datore e la disponibilità del lavoratore rappresentano due aspetti fondamentali per garantire l’organizzazione dell’impresa.
In definitiva, il rapporto di lavoro nasce da un contratto, e tale opinione è indiscussa.
Spesso si è richiamata l’attenzione su un maggiore spazio per l’autonomia individuale, consentendo alle parti di modificare in senso migliorativo (per il lavoratore) le norme di legge e il contratto collettivo. Il datore di lavoro ha la possibilità di contrattare con il lavoratore su vari aspetti della disciplina della prestazione, consentendo una massima elasticità del lavoro; il lavoratore, invece, può realizzare più facilmente i propri interessi e le proprie scelte.
Negli ultimi anni, la possibilità di ridurre la rigidità del contratto collettivo o della legge è risultata necessaria per affrontare le difficoltà della crisi economica. Ad assumere rilevanza è l’indebolimento della posizione del lavoratore in seguito alla riduzione dei vincoli nella disciplina del contratto a termine e in seguito alla restrizione della tutela reale contro il licenziamento ingiustificato. Entrambe vanno a intaccare il principio dell’inderogabilità, offrendo al datore di lavoro il potere di attenuare i vincoli normativi apposti dall’ordinamento proprio per limitarne il potere.
In conclusione è utile sottolineare che va ribadita l’importanza delle condizioni di uguaglianza tra le parti nella negoziazione; bisogna considerare la relazione “individuale-collettivo” sotto il piano giuridico-istituzionale (come fatto anche nella Costituzione nell’art.39, prevedendo un sistema di diritti individuali nei confronti della rappresentanza collettiva e per dar vita a una solida democrazia sindacale, così da salvaguardare la dimensione individuale della libertà sindacale ex art 39 co.1)
L’articolazione del potere legislativo tra Stato e Regioni
Le competenze tra Stato e Regioni sono state profondamente riviste dalla “Riforma del titolo V del 2001” (che ha riscritto l’art. 117 cost.), la quale ha prodotto effetti anche sul sistema delle fonti del diritto del lavoro, oltre al rapporto tra legge statale e legge regionale, con un ampliamento degli spazi attribuiti a quest’ultima in materia di diritto del lavoro. L’altro aspetto riguarda, invece, il diritto sovranazionale.
Infatti, il nuovo testo dell’art.117 ho visto un cambiamento di scenario anche al suo interno, e ha distinto tre tipi di potestà legislativa: esclusiva dello Stato (co.2); concorrente Stato-Regioni, con lo Stato che indica i principi fondamenti e le Regioni dispongono la disciplina di dettaglio (co.3); residuale delle Regioni, in virtù della “clausola di residualità” (co.4) nelle materie non espressamente riservata allo Stato.
La novità per il diritto del lavoro riguarda la comparsa della tutela e sicurezza del lavoro, di competenza concorrente.
La dottrina si è preoccupata di stabilire il rapporto tra ordinamento civile (materia di competenza esclusiva statale) alla quale sarebbe affidata la disciplina del contratto individuale di lavoro, le garanzie minime di tutela del lavoro e il diritto sindacale, mentre la tutela e sicurezza del lavoro (come abbiamo visto, di competenza concorrente) sarebbe affidato il diritto amministrativo del lavoro e la disciplina del mercato del lavoro. Tale interpretazione è stata recepita dalla Corte costituzionale che ha confermato la tesi della dottrina. In particolare, la Corte ha individuato la disciplina dei servizi per l’impiego, specialmente quella del collocamento, alla potestà concorrente tra Stato-Regioni.
Per quanto riguarda la competenza “residuale”, l’ambito di applicazione è limitato, dato che è ad essa è attribuibile solo l’istruzione e formazione personale, erogata da un soggetto pubblico o da un soggetto privato con cui la regione abbia fatto un accordo.
Un ulteriore riparto delle competenze prevede che la previdenza sociale sia attribuita alla potestà esclusiva statale, mentre la previdenza complementare e integrativa è affidata alla competenza concorrente.
Le fonti di diritto internazionale
Per quanto riguarda il diritto internazionale, le fonti relative al diritto del lavoro sono: i principi generali e le norme di carattere consuetudinario, che hanno efficacia vincolante ed entrano direttamente nell’ordinamento (come previsto dall’art.10 co.1 Cost) e i trattati internazionali, la cui efficacia è subordinata ad un atto formale di ratifica ed esecuzione, in assenza del quale non sorgono obblighi per gli Stati contraenti.
Tra le fonti di diritto interazionale contenenti previsioni rilevanti per il diritto del lavoro, ricordiamo: Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo; Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU); la Carta sociale europea; altre Convenzioni in tema di lavoro forzato, lavoro minorile, schiavitù, parità di trattamento retributivo uomo-donna, ecc.
Il diritto del lavoro europeo: la periodizzazione in tre fasi
Il diritto del lavoro europeo può essere suddiviso in tre fasi:
- fase mercantile, che va dall’istituzione della CEE (Comunità economia europea) con il Trattato di Roma fino alla metà degli anni ’80. La fase è caratterizzata dalla prevalenza delle esigenze di mercato e della libera concorrenza su quelle sociali. Da qui l’attenzione nella regolamentazione di aspetti legati alla creazione e al mantenimento del mercato comune;
- fase delle politiche sociali in cui si inizia a dare maggior importanza ai diritti sociali. Vi saranno delle modifiche al “Trattato istitutivo” della CEE che riguardano: l’accrescimento delle competenze comunitarie in ambito di politica sociale; la nascita e il consolidamento della contrattazione collettiva europea; il ricorso a fonti normative non vincolanti “soft-law”.
- fase della “costituzionalizzazione” dei diritti sociali il cui inizio coincide con il Trattato di Nizza (2000) e con la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La grande novità consiste in una catalogazione, in un unico documento normativo dei diritti fondamentali, in cui vengono posti sullo stesso piano diritti civili, politici da un lato e diritti sociali dall’altro.
Tuttavia questo procedimento di “costituzionalizzazione” ha subito una battuta d’arresto nel 2004, quando il Trattato costituzionale europeo non fu completato, prendendo poi nuovamente vigore nel 2009 con il Trattato di Lisbona. Alcuni paesi hanno scelto di limitare il rilievo della Carta europea nei propri ordinamenti. Tra tutti il Regno Unito che dapprima ha escluso il proprio ordinamento dalle modifiche apportate dai Trattati di Maastricht e Amsterdam (1992 e 1997) e successivamente nel 2016 ha attivato il procedimento di fuoriuscita dall’Unione europea (“Brexit”).
Vanno infine ricordati i frequenti interventi normativi degli ultimi anni da parte delle istituzioni europee, mediante atti non vincolanti formalmente ma politicamente incisivi, attenti soprattutto in materia finanziaria piuttosto che alla tutela dei diritti, allo scopo di contenere il deficit di bilancio dei Paesi membri.
Nel 2017 è stato proclamato il c.d. “Pilastro europeo dei diritti sociali” (“Pillar for Social Rights”) da parte degli organismi europei, che comprende un’elencazione di principi e diritti fondamentali, nonostante esso non sia un atto formalmente vincolante.
Inoltre, a causa della crisi degli ultimi anni, ha avuto luogo un “aggiustamento” del metodo di coordinamento delle politiche occupazionali, attraverso l’articolazione su base triennale e la nascita di misure di c.d. “flexicurity” volte a combinare la flessibilità e sicurezza nel rapporto di lavoro e nel mercato di lavoro. Tuttavia, ultimamente è stata messa in discussione l’adeguatezza di tali misure in relazione a contesti nazionali diversi.
Il conseguente assetto delle fonti
Per quanto riguarda l’assetto delle fonti in ambito sovranazionale e con ripercussioni sul diritto del lavoro, bisogna distinguere le fonti primarie (ex: Trattato sull’Unione europea TUE, Trattato sul funzionamento dell’Unione europea TFUE, Carta di Nizza) dalle fonti secondarie (ex: regolamento, direttiva, raccomandazioni, pareri). I regolamenti sono vincolanti e direttamente applicabili, le direttive sono fonti vincolanti ma non direttamente applicabili, essendo necessario un atto di trasposizione da parte dell’ordinamento nazionale. Tuttavia, va specificato che la direttiva non trasposta ma enunciata in maniera incondizionata e sufficientemente precisa può produrre lo stesso effetti giuridici (c.d. “effetto utile” o “direttiva self-executing”) mentre le raccomandazioni e pareri non sono fonti vincolanti.
La regolamentazione delle materie di politica sociale può avvenire anche mediante la contrattazione collettiva europea, che assume quindi un ruolo istituzionale, con un procedimento normativo speciale.
Ruolo importante sull’osservanza e applicazione del diritto comunitario è svolto dalla Corte di giustizia che agisce come Corte internazionale quando vi siano controversie tra stati membri, mentre opera come Corte europea negli altri casi.
Negli ultimi anni, con l’aumento delle competenze comunitarie e il numero di Stati membri, è risultato molto difficile approvare nuove direttive, e perciò ci si è spostati verso misure non vincolanti, soprattutto per le politiche occupazionali.
Le competenze dell’Unione Europea in materia di politiche sociali e diritto del lavoro
Vi sono una serie di materie di politica sociale e diritto del lavoro di competenza dell’Unione europea, come ad esempio: il miglioramento dell’ambiente di lavoro, le condizioni di lavoro, la sicurezza e la protezione sociale, la protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro, informazione e consultazione, rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi soggiornanti legalmente nell’UE, ecc.
Inoltre, per ripartire meglio le competenze tra Unione e Stati membri si ricorre al principio di sussidiarietà sia verticale, che orizzontale.
Per la gran parte dei settori si utilizza la procedura legislativa ordinaria, attraverso la co-decisione del Consiglio e del Parlamento europeo. In 4 settori specifici invece opera la procedura legislativa speciale in cui il Consiglio delibera all’unanimità, previa consultazione del Parlamento. Le materie di retribuzione, diritti di associazione, diritto di sciopero e diritto di serrata sono escluse dalla competenza dell’Unione europea.