Le fonti del Diritto Internazionale
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Le fonti del Diritto Internazionale

L’art.38 dello statuto della Corte Internazionale di Giustizia

Ai sensi dell’art. 38, par. 1, dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, la Corte deve applicare:

  1. le convenzioni internazionali, sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente riconosciute dagli Stati in lite;
  2. la consuetudine internazionale, come prova di una pratica generale accettata come diritto;
  3. i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.

Questa disposizione è tradizionalmente considerata come un’autorevole enunciazione delle fonti del diritto internazionale. L’art. 38 deve essere oggi letto insieme all’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, il quale ha riconosciuto l’esistenza di norme imperative del diritto internazionale generale (ius cogens).
Le norme di diritto cogente, però, non sarebbero prodotte da un’autonoma fonte di diritto internazionale. Esisterebbero, cioè, delle norme consuetudinarie cogenti, che prevalgono su contrari accordi e sulle stesse norme consuetudinarie prive di carattere cogente. Inoltre le norme cogenti produrrebbero effetti che trascendono il diritto dei trattati, investendo altri settori del diritto internazionale.

La consuetudine

L’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia definisce la consuetudine come “una pratica generale accettata quale diritto”. La consuetudine si compone di due elementi: la diurnitas, cioè la ripetizione costante di un comportamento da parte della generalità degli Stati (elemento materiale) e l’opinio iuris ac necessitatis, vale a dire la convinzione generale che tale comportamento sia conforme al diritto (elemento psicologico). Deve trattarsi di pratica considerata come conforme al diritto; non può dare origine ad una consuetudine internazionale una pratica contraria al diritto e che sia reputata tale.

Affinché sussista l’elemento materiale della consuetudine, è necessario che un determinato comportamento sia ripetuto nel tempo, in modo uniforme, da tutti gli Stati. Il tempo di formazione della consuetudine può essere più o meno esteso; in alcuni casi norme consuetudinarie sono venute alla luce in un arco ristretto di tempo: si pensi al caso della norma consuetudinaria sulla piattaforma continentale. In ogni caso, un certo lasso di tempo, per quanto breve, è necessario ai fini della cristallizzazione di una norma consuetudinaria. Non esistono però consuetudini istantanee in quanto sarebbe una contraddizione in termini. Le risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non possono creare diritto consuetudinario, al massimo possono provare l’opinio iuris degli Stati.

La prassi deve essere uniforme e seguita dalla generalità degli Stati; non si richiede che un comportamento sia tenuto da ognuno dei membri della comunità internazionale, ma dalla maggior parte di essi. Generalità non significa totalità. Molto importante è il comportamento degli Stati i cui interessi sono toccati, come gli Stati marittimi per la nascita delle consuetudini in materia di diritto del mare.
La prassi negativa di per sé non prova l’esistenza di un obbligo di non facere. È necessario che essa sia sorretta dall’opinio iuris; la prassi incompatibile non è in se stessa elemento sufficiente a produrre l’abrogazione di una norma preesistente.

La formazione di una norma consuetudinaria dipende anche dalla convinzione che la pratica sia conforme al diritto; la Corte internazionale di giustizia specifica che gli atti devono essere compiuti in modo tale da costruire la prova della convinzione che questa pratica sia resa obbligatoria dall’esistenza di una norma di diritto.
L’elemento psicologico può consistere anche nella convinzione di esercitare un diritto, ad es. molti Stati affermano l’esistenza di un diritto di passaggio inoffensivo per le navi da guerra nel mare territoriale.
L’opinio iuris circa l’esistenza della norma, che può scaturire dalle risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, non è attribuibile a quegli Stati che abbiano votato contro o che comunque abbiano affermato che la risoluzione non è dichiarativa del diritto internazionale consuetudinario.
La necessità dell’elemento materiale e psicologico è stata ribadita dalla Corte internazionale di giustizia nel parere sulla liceità delle armi nucleari del 1996.

La consuetudine crea norme di diritto internazionale generale vincolanti per tutti i membri della comunità internazionale. Ogni Stato deve osservarle indipendentemente dal fatto che abbia o meno partecipato alla sua formazione o che l’abbia accettata; gli Stati di nuova formazione sono vincolati dalle norme consuetudinarie generali vigenti al momento della loro nascita. Non è accettabile la tesi secondo cui la consuetudine non vincola lo Stato il quale si sia persistentemente opposto, in modo palese, al suo processo di formazione (c.d.teoria dell’obiettore permanente). Tale tesi, sostenuta da autorevole dottrina, finisce per sconfinare nella concezione contrattualistica della consuetudine internazionale che, tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, costruiva la consuetudine come un accordo tacito.

L’idoneità della consuetudine a produrre norme generali, non esclude che vi siano norme consuetudinarie vincolanti soltanto una ristretta cerchia di soggetti (consuetudini particolari). Si tratta di quelle che vincolano solo gli Stati appartenenti ad una determinata area geografica o geopolitica. È stata invocata quale consuetudine regionale dell’America Latina il principio dell’uti possidetis secondo cui, nella delimitazione dei rispettivi confini internazionali, gli Stati latinoamericani dovrebbero conformarsi alle demarcazioni territoriali fra le varie circoscrizioni amministrative istituite dalla Spagna all’epoca coloniale. Tale principio ora è diventato di universale applicazione.
Secondo alcuni, una seconda ipotesi di consuetudine particolare sarebbe data da quelle consuetudini che si formano in deroga a regole pattizie. La prassi modificativa di un trattato, però, potrebbe essere meglio intesa non come elemento di consuetudine internazionale, ma come un comportamento da cui può evincersi un accordo tacito modificativo del precedente.

Le norme imperative del Diritto Internazionale (Ius Cogens)

Le norme imperative del diritto internazionale o norme di ius cogens hanno un rango superiore alle norme poste mediante accordo e alle norme consuetudinarie. La categoria delle norme imperative è emerse in un periodo recente: tali norme hanno trovato riconoscimento nell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che contiene una definizione di ius cogens niente affatto tautologica. Infatti, costituiscono norme di ius cogens quelle regole del diritto internazionale le quali sono riconosciute ed accettate dalla comunità internazionale, nel suo insieme, come inderogabili. L’art. 53 contiene dunque i criteri identificativi dello ius cogens, che sono due:

 

  1. la generalità. Una determinata regola deve appartenere alla categoria delle norme del diritto internazionale che vincolano tutti gli Stati membri. Poiché l’unica fonte idonea a produrre norme generali è la consuetudine, ne deriva che le norme di ius cogens sono necessariamente norme di fonte consuetudinaria;
  2. l’accettazione e il riconoscimento, quale norma inderogabile, da parte della comunità internazionale nel suo insieme. Affinché una norma di diritto generale possa essere considerata come norma imperativa, è necessario che essa sia accettata e riconosciuta quale norma inderogabile dalla comunità internazionale nel suo insieme. Gli Stati devono nutrire la convinzione della natura inderogabile della norma. Siffatta convinzione deve essere propria della comunità internazionale nel suo insieme, deve essere cioè condivisa dagli Stati appartenenti a tutte le componenti essenziali della comunità internazionale. È escluso, quindi, che possa esistere uno ius cogens regionale.

Le norme imperative di diritto internazionale generale, sono sorrette da una particolare opinio iuris. Gli Stati sono convinti non solo dell’universale applicabilità della norma, ma anche della sua inderogabilità. Le norme imperative sono in primis norme consuetudinarie, sostenute, appunto, da una opinio iuris qualificata, l’inderogabilità. Non è raro il caso che una norma nasca come consuetudine e si trasformi come norma imperativa, pur potendo avere un contenuto più ristretto rispetto alla norma consuetudinaria: ad es. rispetto alla norma consuetudinaria sul divieto dell’uso della forza e sul divieto di aggressione, esiste una norma imperativa che ha un uso più ristretto della norma consuetudinaria sul divieto dell’uso della forza. Ad oggi è difficile configurare norme che siano automaticamente sorte come norme cogenti. In genere si tratta di norme già presenti nell’ordinamento internazionale come norme consuetudinarie e successivamente diventate norme cogenti.

La nozione di ius cogens ha rilievo sia per il diritto dei trattati, sia per le altre fonti previste da accordo. Una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, contraria allo ius cogens, sarebbe invalida. Lo ius cogens ha assunto importanza in altri settori dell’ordinamento, tra cui quello della responsabilità internazionale.

Dottrina e Commissione del diritto internazionale hanno qualificato come norme cogenti, oltre alla già citata norma che vieta l’aggressione, anche quelle che vietano il genocidio, l’apartheid o la tortura. Per alcune di queste, la cogenza è stata affermata anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Anche la giurisprudenza interna e quella dell’UE si sono interessate allo ius cogens.
Le norme cogenti proteggono diritti fondamentali dell’ordinamento internazionale e costituiscono le basi fondanti dell’attuale comunità internazionale. La nozione di norma imperativa è ancora incerta; per questo in dottrina, invece di ricostruire la nozione di ius cogens, si preferisce elaborare un elenco concreto di norme cogenti, ricavandolo da giurisprudenza internazionale ed interna.
Si esclude che lo ius cogens possa trovare fonte in un trattato internazionale, poiché l’accordo vincola solo gli Stati parti.

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L’accordo

L’accordo o trattato o convenzione è fonte del diritto internazionale. Lo Statuto della Corte internazionale di giustizia, nell’elencare le norme applicabili dalla Corte per risolvere una controversia, dispone che la Corte applichi le convenzioni internazionali sia generali che particolari, che stabiliscono norme espressamente riconosciute dagli Stati in lite. La procedura di conclusione dei trattati, i loro effetti, le riserve, le invalidità e l’estinzione sono disciplinati dal diritto consuetudinario.

La Convenzione di Vienna del 1969 è un trattato sui trattati, in quanto detta regole per la disciplina di tale fonte. Le regole in questione sono in parte dichiarative e in parte di sviluppo progressivo. La Convenzione non è stata ratificata né dalla Francia né dagli Stati Uniti, ma dall’Italia sì.
L’art. 2 stabilisce che l’espressione trattato significa accordo internazionale concluso per iscritto fra Stati e disciplinato dal diritto internazionale, contenuto sia in un unico strumento, sia in uno o più strumenti connessi.
Il trattato è suscettibile di avere varie denominazioni: trattato, convenzione, accordo, carta, statuto, protocollo, patto, dichiarazione e così via.
La volontà di concluderlo può essere contenuta in un unico strumento oppure in due o più strumenti connessi: scambio di note o di lettere. L’accordo deve essere disciplinato dal diritto internazionale; non è un trattato un accordo che trova fondamento nel diritto pubblico interno di uno dei contraenti, né uno strumento non avente natura giuridicamente vincolante.

Ad es. i documenti OSCE non sono atti giuridicamente vincolanti. Le minute in cui sono registrati i processi verbali delle delegazioni non costituiscono un accordo; solo in un caso la Corte internazionale di giustizia (Qatar-Bahrein) ha affermato che le minute di incontro, firmate dai rispettivi ministri, costituivano un accordo. Il Consiglio di Stato ha riconosciuto valore pattizio alla dichiarazione congiunta italo-libica del 1988, con cui l’Italia si impegnava a restituire i beni culturali esportati dal territorio durante la colonizzazione.
Il criterio distintivo è generalmente dato dall’intenzione delle parti: deve accertarsi se esista una reale volontà di obbligarsi. Talvolta per evitare confusione si specifica che il documento firmato non costituisce accordo.

La Convenzione di Vienna disciplina solo accordi tra Stati. Tuttavia sono trattati anche gli accordi conclusi tra Stati e altri soggetti di diritto internazionale. Inoltre la Convenzione disciplina solo gli accordi in forma scritta e non quelli in forma orale. Al contrario, altre convenzioni stabiliscono che la forma scritta è requisito essenziale del contratto. Il problema degli accordi orali non è tanto quello della loro ammissibilità, quanto quello di stabilire cosa si è pattuito. Non esistono materie specifiche che possano essere incluse o non incluse in un accordo. Questo può disciplinare ogni materia, inclusa la forma di governo dello Stato; il solo limite è quello dello ius cogens. Un accordo contrario allo ius cogens è nullo.

Al contrario della consuetudine internazionale che produce diritto internazionale generale, l’accordo produce solo diritto particolare, diritti ed obblighi solo tra gli Stati parti. Ciò non toglie che la regola di un trattato possa riprodurre una regola consuetudinaria preesistente o trasformarsi successivamente in diritto consuetudinario.

Questi concetti trovano applicazione in relazione agli accordi di codificazione. La Carta delle Nazioni Unite assegna all’Assemblea Generale il compito di incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione. A tal fine, l’Assemblea Generale si avvale della Commissione di diritto internazionale (CDI), organo di individui che predispone il lavoro necessario per preparare i progetti di convenzione.

Gli accordi scaturiti da tale processo possono essere dichiarativi, in tutto o in parte, del diritto consuetudinario. Le regole dichiarative del diritto consuetudinario obbligano gli Stati, indipendentemente dalla ratifica dell’accordo, e dalla sua entrata in vigore. Talvolta l’accordo contiene regole che non sono codificazione del diritto internazionale in vigore, ma ne costituiscono sviluppo progressivo; in tal caso, a meno che la regola pattizia non si trasformi in consuetudine, uno Stato è vincolato solo se diviene parte dell’accordo e a patto che questo entri in vigore.

I principi generali di Diritto riconosciuti dalle nazioni civili

L’art. 38, par. 1, dello Statuto della Corte internazionale di giustizia dispone, alla lettera c), che la Corte, al fine di risolvere le controversie internazionali, applica “i principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili”. Si tratta di quei principi giuridici generalmente riconosciuti negli ordinamenti interni degli Stati; sono assunti nell’ordinamento internazionale in virtù di un processo di produzione giuridica automatico. Possono citarsi il principio di irretroattività delle norme giuridiche a carattere punitivo, e quello per cui nessuno può essere giudice della propria causa.

Si tratta di principi applicabili sul piano internazionale per integrare, qualora vi sia necessità, tanto il diritto pattizio quanto quello consuetudinario: tale funzione integratrice è resa palese dal fatto che sono collocati al terzo posto nell’elenco delle fonti di cui all’art. 38, dopo gli accordi e le consuetudini.

L’espressione Nazioni civili è il retaggio di un’epoca lontana, in cui erano ritenute civili solo le Nazioni appartenenti alla res publica christiana. Oggi la formula è quasi offensiva verso i paesi meno sviluppati, ed è stata sostituita dalla dizione “principi generali di diritto riconosciuti dall’insieme delle Nazioni”.
Ai principi generali di diritto fa riferimento anche l’art. 21 dello Statuto della Corte penale internazionale per quanto riguarda il diritto applicabile: la Corte applica le norme dello Statuto e, in secondo luogo, i trattati, i princìpi e le regole del diritto internazionale. In mancanza, la Corte applica i princìpi generali di diritto elaborati dalla stessa in base alla normativa interna dei sistemi giuridici del mondo.
Tali princìpi hanno ruolo determinante nell’individuazione del diritto applicabile ai contratti tra Stati e privati, qualora non si tratti di accordi internazionali.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 48/1967, non ha qualificato come principio di diritto riconosciuto dalle Nazioni civili il ne bis in idem ed ha quindi ammesso la possibilità, alla luce del diritto internazionale, di giudicare di nuovo, in Italia, per un reato commesso nel nostro territorio, chi sia stato giudicato per lo stesso reato all’estero. Il principio del ne bis in idem opera invece nei rapporti tribunali interni-tribunali penali internazionali: questi ultimi possono sottoporre il reo a nuovo procedimento solo in alcune ipotesi (se il procedimento nazionale non sia stato imparziale).

I princìpi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili devono essere distinti dai princìpi generali del diritto internazionale, cui spesso fa riferimento la Corte internazionale di giustizia. Tali ultimi princìpi sono desunti direttamente dall’ordinamento internazionale e non da quelli interni; hanno natura normativa e pongono autonome valutazioni, non hanno cioè natura integrativa. È da ricomprendervi quello della delimitazione secondo princìpi equi applicabile in materia di divisione della piattaforma continentale.

Le fonti previste da accordo

L’accordo può prevedere che vengano create norme giuridiche vincolanti nei rapporti tra le parti. In tal caso, si è in presenza di una fonte prevista da accordo. La dottrina, che pone l’accordo al secondo livello, dopo la consuetudine, parla di fonti di terzo grado; altra parte della dottrina, che pone l’accordo al pari della consuetudine, preferisce parlare di fonti di secondo grado. La questione, però, è priva di rilievo pratico.

La fonte prevista da accordo può essere inserita in un semplice trattato oppure in un trattato istitutivo di una organizzazione internazionale. Un esempio della prima categoria è la clausola della Nazione più favorita, con la quale è esteso all’altra parte del trattato il trattamento più favorevole che una parte concede ad un terzo, unilateralmente o in virtù di un accordo tra quella parte e il terzo.
Taluni collocano tra le fonti previste da accordo anche le sentenze internazionali, sia quelle dispositive, sia quelle pronunciate secondo equità e sia quelle di puro accertamento: in tutti i casi è l’accordo che conferisce al tribunale il potere di risolvere la controversia tra le parti in lite.

Il fenomeno più promiscuo è stato rappresentato dalle fonti previste dai trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. Il Trattato di Lisbona sull’UE, ad es., attribuisce agli organi preposti il potere di emanare sia atti vincolanti (regolamenti, direttive e decisioni), sia atti non vincolanti (raccomandazioni e pareri). Mentre il regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile agli Stati membri, la direttiva vincola lo Stato solo verso gli obiettivi da raggiungere, lasciandolo libero di scegliere i mezzi più appropriati per raggiungerlo. La decisione è un atto di amministrazione concreta, né astratto e né generale, ma è obbligatoria in tutti i suoi elementi; se designa i destinatari, è obbligatoria soltanto nei confronti di questi ultimi.

Nelle Nazioni Unite spetta al Consiglio di Sicurezza adottare decisioni vincolanti, l’Assemblea Generale ha solo un potere di raccomandazione. L’unico caso in cui l’Assemblea Generale può adottare un atto vincolante è quando deve ripartire le spese dell’organizzazione tra gli Stati membri. Il Consiglio di Sicurezza può emanare decisioni vincolanti che obbligano lo Stato ad adottare misure coercitive non comportanti l’uso della forza ma, si tratta di atti di natura concreta, difficilmente assimilabili ad un atto normativo. Sono prese dopo che il Consiglio abbia valutato una minaccia alla pace.

Recentemente il Consiglio di Sicurezza ha intrapreso una strada più incisiva, della cui conformità alla Carta è lecito dubitare, adottando, sempre nella forma della decisione, atti assimilabili a veri e propri trattati internazionali: a differenza dei trattati, che richiedono la procedura di ratifica per obbligare gli Stati, le decisioni vincolano gli Stati non appena adottate dal Consiglio di Sicurezza. Ad es. la risoluzione 1373 del 2001 con cui venivano dettate misure contro il terrorismo che gli Stati dovevano attuare all’interno dei loro ordinamenti. Le istituzioni delle Nazioni Unite non hanno, di solito, poteri normativi. Tra le eccezioni va annoverata l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). I regolamenti adottati dall’Assemblea Generale, dove sono rappresentati gli Stati membri, entrano in vigore per tutti gli Stati parti del Trattato istitutivo dopo che è stata notificata la loro adozione, tranne che uno Stato dichiari al Direttore dell’OMS che intende rigettare il regolamento o esprime delle riserve entro i termini stabiliti nella notifica. In questo caso il regolamento, pur essendo obbligatorio, non vincola lo Stato che ne rifiuti l’applicazione.

Non hanno efficacia vincolante le convenzioni e le raccomandazioni adottate dalla Conferenza internazionale del lavoro dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL).
I trattati istitutivi di organizzazioni internazionali possono prevedere una procedura di emendamento con effetti erga omnes (emendamenti dalla Carta delle Nazioni Unite).

La gerarchia delle fonti

Al vertice c’è la consuetudine, ma questa, a seconda dell’atteggiarsi dell’elemento soggettivo, può produrre norme derogabili mediante accordo oppure norme inderogabili e quindi cogenti (imperative). Queste ultime prevalgono sulle semplici norme consuetudinarie ed invalidano o estinguono contrari accordi. Una norma imperativa può essere modificata solo da norma successiva avente eguale valore; è difficilmente ammissibile che una norma imperativa si estingua per desuetudo. Atti contrari ad una norma imperativa avrebbero la natura di illeciti qualificati (ad es. divieto di aggressione).

Lo ius cogens impedisce la formazione di norme consuetudinarie contrarie e comunque la consuetudine cede al diritto cogente posteriore. Ad es. il principio di libertà dell’alto mare, in merito allo sfruttamento dei fondi marini, non può più essere applicato, essendo stato superato dal principio del patrimonio comune dell’umanità. Questo trova applicazione sia che se ne riconosca la natura di norma imperativa, sia che si qualifichi come norma consuetudinaria, le consuetudini successive si coordinano sempre secondo il principio di successione delle leggi penali nel tempo.

È invece importante stabilire se una norma posteriore ad un trattato abbia natura imperativa o consuetudinaria. Mentre la norma imperativa estingue il trattato anteriore, questo prevale a fronte di una norma consuetudinaria successiva.
L’ordine elencato dall’art. 38 è quello in cui le fonti si presentano al giudice internazionale: di fronte a una fattispecie concreta, egli verificherà se essa sia disciplinata in primis dall’accordo tra le parti, in mancanza dalla consuetudine, ed infine i princìpi generali del diritto riconosciuti dalle Nazioni civili verranno in considerazione solo come principi integratori di accordi e consuetudini.

Le norme consuetudinarie si coordinano sempre secondo il principio di successione delle leggi nel tempo: la consuetudine posteriore prevale su quella anteriore. I rapporti tra consuetudine particolare e consuetudine generale si coordinano secondo il principio di specialità: anche se anteriore, la consuetudine particolare prevale sulla consuetudine generale.

Il rapporto tra consuetudine e accordo è disciplinato secondo il principio di specialità. L’accordo anteriore prevale sulla consuetudine posteriore a titolo di legge speciale. Può darsi però che scopo della consuetudine posteriore sia quello di disciplinare un’intera materia, con la conseguenza che la consuetudine posteriore abroga l’accordo anteriore. Ad es. la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha stabilito che la nascita della consuetudine relativa alla ZEE ha abrogato la Convenzione di Londra del 1964.
Il principio di specialità non è applicabile ai rapporti tra accordo e consuetudine locale. Le due fonti si coordinano secondo il principio di successione di leggi nel tempo: la consuetudine locale posteriore prevale sull’accordo anteriore.
I princìpi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili integrano norme pattizie e consuetudini: si applicano solo in assenza di una precisa norma. Ne consegue che consuetudine e accordo prevalgono sui princìpi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili.

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Fonti normative:

  • articolo 38 statuto Corte internazionale di giustizia
  • articolo 53 Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati
  • parere della Corte internazionale di giustizia del 1996 sulla liceità delle armi nucleari
  • articolo 2 Convenzione di Vienna del 1969
  • articolo 38 lett. c statuto Corte internazionale di giustizia
  • articolo 21 statuto Corte penale internazionale
  • sentenza 481967 Corte Costituzionale
  • risoluzione 13732001
  • convenzione di Londra del 1964
  • sentenza Corte di giustizia internazionale del 1970 sulla Barcelona Traction
  • trattato di amicizia, partenariato e cooperazione Italia-Libia del 2008
  • articolo 7 Convenzione di Vienna