I criteri per comporre le fonti in sistema
La varietà e la molteplicità delle fonti richiedono dei criteri per il loro coordinamento; nel sistema italiano sono: il criterio gerarchico, cronologico, della competenza e di specialità.
Il primo consiste nell’ordinare e coordinare le fonti secondo la diversa efficacia loro attribuita dall’ordinamento, ragion per cui la fonte di grado superiore prevale su quella di grado inferiore; il secondo stabilisce che la fonte successivamente adottata nel tempo prevale su quella precedente; il terzo specifica che l’efficacia delle fonti si distingue a seconda della sfera territoriale (legge regionale e legge statale) o materiale (regolamenti parlamentari o regolamenti governativi) in cui essa opera.
Infine, il criterio della specialità determina l’applicazione della norma speciale e non di quella generale (come per l’art. 15 c.p.).
Il termine efficacia, relativo alle fonti normative, può essere assunto sia in un significato formale che in un significato sostanziale. Se lo intendiamo in senso sostanziale, essa viene identificata come l’attitudine della fonte a creare o immettere nell’ordinamento regole dotate dei caratteri propri della norma giuridica. Se lo intendiamo in senso formale essa si riferisce alle procedure atte a produrre atti giuridici.
Generalmente tutte le fonti hanno efficacia sia formale che sostanziale.
Nella scala gerarchica delle fonti la legge emanata dal Parlamento è la fonte primaria o di primo grado. La ragione di questa importanza sta nel fatto che, nel momento del passaggio dalla monarchia alla repubblica, si è voluto dare più potere alle assemblee piuttosto che a un solo soggetto. Ciò spiega anche la preferenza della legge rispetto ad altre fonti. Successivamente anche il Governo è diventato organo fondamentale nell’ambito della produzione normativa, è il caso dei decreti legge e decreti legislativi, che hanno la stessa efficacia della legge.
Nonostante la Costituzione non delinei un elenco delle fonti del diritto, ci sono dei punti fermi che si possono desumere dalla carta fondamentale. In primo luogo la legge costituzionale (ex art. 138 Cost.) è in posizione di supremazia rispetto alle altre fonti; mediante tale fonte si procede alla modifica della Costituzione e le norme in contrasto con essa possono essere dichiarate illegittime costituzionalmente. In secondo luogo si presume una preferenza per la legge emanata dal Parlamento; in terzo luogo si dà rilievo alla funzione normativa del Governo.
La stessa efficacia della legge del Parlamento la ha il referendum abrogativo di una legge o di un atto avente forza di legge. Col referendum non si crea diritto in modo immediato, ma esso determina l’abrogazione totale o parziale di una norma. E questo effetto è fondamentale per produrre una modifica dell’ordinamento; infatti bisognerà poi colmare il vuoto normativo che il referendum ha creato.
Viene inoltre specificato che tra la legge e le altre fonti ad essa equiparate non c’è un rapporto di pari ordinazione, ma di separazione; la potestà legislativa, ex art. 117 Cost., viene ripartita tra Stato e Regioni. Il primo stabilisce i principi fondamentali per ciascuna materia, le regioni opereranno nei limiti stabiliti da quest’ultimo.
Tra la legge parlamentare e gli atti governativi aventi la sua stessa efficacia (decreti legge e decreti legislativi) la Costituzione preferisce la prima; viene condizionato l’esercizio della funzione legislativa da parte del Governo alla previa emanazione, da parte del Parlamento, di una legge che determini l’oggetto della delega e il tempo entro cui il Governo potrà legiferare. Il Governo deve sottostare ai principi e ai criteri direttivi del Parlamento. Infatti, l’efficacia formale dei decreti legislativi non coincide con la loro efficacia sostanziale poiché quest’ultima è subordinata all’efficacia sostanziale della legge di delega del Parlamento. Inoltre, l’efficacia dei decreti legge ha vigenza limitata a sessanta giorni, alla scadenza dei quali se non c’è conversione in legge, cessano di avere efficacia fin dall’inizio.
Le fonti aventi un’efficacia subordinata a quella della legge formale
Il regolamento governativo può immettere nuove norme nell’ordinamento, ma esse non devono essere in contrasto con quelle contenute in leggi, decreti legge e decreti legislativi. Ciò viene ribadito nell’art. 4 delle Disposizioni sulla legge in generale secondo cui “i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge”; si aggiunge, altresì, che i regolamenti emanati da autorità diverse dal Governo non possono dettare norme contrarie a quelle contenute in quelli governativi.
Sono ammessi i regolamenti autorizzati; una legge può disporre l’abrogazione di norme vigenti, con effetto dall’entrata in vigore di queste norme regolamentari. Inoltre, un regolamento può disciplinare una materia non disciplinata dalla legge ponendosi come unica fonte regolatrice. In entrambi i casi i regolamenti hanno la stessa efficacia sostanziale della legge, ma non formale. I regolamenti, infatti, sono sempre norme subordinate alla legge e non sottostanti al giudizio di legittimità della Corte Costituzionale (quest’ultimo ha ad oggetto solo leggi statali e regionali).
Accanto ai regolamenti statali governativi ci sono quelli statali non governativi, gli statuti e i regolamenti di regioni, città metropolitane, province e comuni e i regolamenti di enti pubblici non territoriali. I regolamenti statali non governativi possono essere emanati da singoli ministri o da organi centrali o locali e sono subordinati alle fonti primarie e ai regolamenti governativi.
Quindi la subordinazione del regolamento alla legge è relativa, poiché alcuni regolamenti possono operare deroghe alla legge del Parlamento o dettare norme in materie riservate alla legge. Diversa è, come detto, l’efficacia formale. C’è chi sostiene che essi sono equiparati alla legge e quindi debbano sottostare al giudizio di costituzionalità; chi sottolinea la subordinazione alla fonte primaria; altri ancora sostengono che questo ruolo dei regolamenti è completamente in contrasto con il sistema delle fonti del diritto.
I regolamenti degli organi costituzionali e degli organi a rilevanza costituzionale
Gli organi costituzionali e a rilevanza costituzionale possono darsi propri regolamenti volti a disciplinare la loro organizzazione interna, il personale, il modo di esercizio delle funzioni, ecc. Vengono in rilievo i regolamenti delle Camere, della Corte Costituzionale, della Presidenza della Repubblica.
I regolamenti delle Camere non sono regolamenti in senso tecnico, essi sono subordinati solo alla Costituzione; sono collocati nel sistema delle fonti non secondo un sistema gerarchico, ma di competenza in quanto la legge formale non può disciplinare la materia.
I regolamenti della Corte Costituzionale troverebbero il loro fondamento nella legge ordinaria, ovvero in quella legge alla quale l’art. 137 Cost. rinvia perché stabilisca “le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della Corte”. Essi quindi sono subordinati alla legge come i regolamenti veri e propri.
Anche i regolamenti della Presidenza della Repubblica, del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio Nazionale dell’economia e del Lavoro rientrano nel sistema delle fonti. Essi hanno funzione organizzatrice e la loro collocazione nel suddetto sistema dipende dal ruolo che gli organi che li emanano hanno nel nostro ordinamento. Sono regolati dal principio della competenza.
La consuetudine
La consuetudine (o uso) è subordinata alla legge e ai regolamenti; quindi è fonte di terzo grado. L’art. 8 delle Disposizioni sulla legge in generale dispone che “nella materie regolate dalle legge e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto da essi richiamati”. L’articolo, anche se non molto chiaro, viene da sempre interpretato nel senso che non sono ammesse consuetudini contrarie a leggi o regolamenti (contra legem), ma solo consuetudini che integrano e specificano il dettato legislativo (secundum legem o interpretative) o che disciplinano materie non regolate da una legge (praeter legem o introduttive).
Sembra, però, ammessa nel nostro ordinamento l’abrogazione di una legge per desuetudine, che si ha quando i destinatari della norma pongono in essere in modo reiterato e diffuso un comportamento omissivo e non osservano un precetto legislativo. In tal caso non si ha consuetudine contra legem, ma pura inosservanza del precetto. Si badi però che l’art. 15 delle Disposizioni sulla legge in generale dispone che “le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori”, per cui l’abrogazione per desuetudine dà luogo a problemi in merito all’efficacia della stessa.
La consuetudine è fonte non scritta; non è prevista dalla Costituzione ma solo dalle Disposizioni sulla legge in generale. È anche fonte fatto; non è solo manifestazione di volontà normativa proveniente da organi a ciò espressamente abilitati, ma è un comportamento uniforme e costante diffuso nel tempo posto in essere da gruppi sociali, più o meno ristretti, della comunità statale. È diritto spontaneamente creato dai destinatari della norma in aderenza ai bisogni della società. Tuttavia, il ripetersi costante di un comportamento non vale, di per sé, a far sorgere una regola di diritto. Non tutti i comportamenti diffusi e reiterati in un gruppo sociale sono idonei a produrre norme giuridiche: si pensi, ad esempio, alle regole religiose, quale quella di seguire, in determinati giorni, le pratiche di culto.
Quindi perché si abbia una norma consuetudinaria oltre al fatto è necessario un altro elemento, ovvero l’opinio iuris ac necessitatis, cioè la credenza da parte degli appartenenti al gruppo che il comportamento sia obbligatorio e conforme al diritto. Tale elemento ha ricevuto numerose critiche.
Bisogna chiedersi se effettivamente questo elemento possa dare alle consuetudini valenza giuridica. Secondo la tesi più diffusa l’opinio è il convincimento dell’obbligatorietà giuridica del comportamento. Unitamente a questo aspetto se ne può considerare un altro, ovvero il convincimento del gruppo che tale comportamento sia conforme ai fini primari del gruppo stesso o valga a definire interessi confliggenti. Ed è così che avrebbe giuridicità, nel momento preciso in cui andrebbe a dirimere eventuali conflitti di interessi. Questi aspetti servono a distinguere le regole consuetudinarie da quelle di costume, di correttezza ecc.; in questi ultimi casi l’ambito di riferimento può essere l’opportunità, la convenienza, l’educazione. Questa differenza giustifica anche la possibilità che la mancata osservanza di una consuetudine generi una sanzione.
Dal momento che la consuetudine è fonte non scritta, la sua esistenza viene provata grazie alla “raccolta degli usi” affidata alle Camere di commercio. Tali raccolte sono sottoposte a revisioni periodiche.