efficacia nel tempo delle leggi
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L’efficacia temporale delle leggi

L’entrata in vigore della legge

Per l’entrata in vigore degli atti legislativi si richiede sia l’approvazione da parte delle due Camere sia la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica (art. 73 Cost.) sia la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (art.73, ult. comma, Cost.).

È fondamentale, poi, il decorso di un periodo di tempo per l’entrata in vigore, detto vacatio legis, che inizia con la pubblicazione ed è di regola di quindici giorni (art. 73 Cost. e art. 10 disp. prel. c.c.), salvo che la legge stessa non individui un termine diverso.

La disciplina dettata dalla Costituzione è integrata dal Testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull’emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana, D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092.

Ad ogni modo, con la pubblicazione, la legge si considera conosciuta dalla comunità e diventa obbligatoria per tutti, anche per chi, non ne abbia avuto conoscenza. Vale, infatti, il principio tradizionale per cui ignorantia iuris non excusat, secondo cui nessuno può invocare a propria giustificazione la non conoscibilità di una legge per evitare una sanzione o sottrarsi agli effetti della norma (art. 5 c.p.). La Corte costituzionale (con la storica sentenza n. 364/1988) ha tuttavia specificato che l’ignoranza della legge è scusabile quando l’errore di un soggetto in ordine all’esistenza o al significato di una legge penale sia stato inevitabile.

L’abrogazione della legge

Una legge viene abrogata quando un nuovo atto dispone che ne cessa l’efficacia. Può anche accadere, però, che una disposizione abrogata continui ad essere applicata ai fatti verificatisi anteriormente all’abrogazione e può anche essere individuato un apposito regime transitorio.

Per abrogare una disposizione serve sempre l’intervento di una nuova disposizione di pari valore gerarchico; quindi, una legge può essere abrogata solo da una legge (e non ad esempio da una fonte secondaria) posteriore (art. 15 disp. prel. c.c.).

L’abrogazione, poi, può essere espressa o tacita. La prima si ha quando la legge posteriore dichiara esplicitamente abrogata una legge anteriore o alcuni suoi singoli articoli; la seconda sussiste in assenza di una dichiarazione espressa ma in base ad altre circostanze. Si ha abrogazione tacita quando le norme posteriori sono incompatibili con una o più disposizioni antecedenti (vi è una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione) e quando introducono una nuova regolamentazione dell’intera materia già definita dalla legge precedente (che deve ritenersi assorbita e sostituita integralmente dalle disposizioni più recenti).

Un fenomeno diverso dall’abrogazione (parziale) di una norma è la deroga, che sussiste quando una nuova norma pone, solo per specifici casi, una disciplina diversa da quella prevista dalla disposizione precedente, che continua però ad essere applicabile a tutti gli altri casi (lex specialis posterior derogat generali).

Un’altra figura di abrogazione espressa si realizza attraverso il referendum popolare, quando ne facciano richiesta almeno cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali; la proposta di abrogazione è approvata se alla votazione partecipano la maggioranza degli aventi diritto e la proposta di abrogazione raggiunga la maggioranza dei voti espressi (art. 75 Cost.).

Anche la dichiarazione d’incostituzionalità di una legge o di un articolo di una legge, o di un comma o di una qualsiasi sua parte, ne fa cessare l’efficacia.

L’abrogazione ha effetto solo per il futuro (ex nunc) e la legge, anche se abrogata, può essere ancora applicata ai fatti verificatisi quando era in vigore; la dichiarazione di incostituzionalità annulla la disposizione illegittima ex tunc, come se non fosse mai stata emanata e quindi non può più essere applicata neanche nei giudizi ancora in corso e neppure a fatti verificatisi in precedenza. Restano salvi soltanto i rapporti definiti con sentenza passata in giudicato (art. 136 Cost.); una decisione contro la quale non possono essere più esperibili i mezzi ordinari di impugnazione.

L’abrogazione di una norma che, a sua volta, ne aveva abrogato una precedente non fa rivivere quest’ultima, salvo che sia espressamente disposto: in tal caso la norma si chiama ripristinatoria.

 L’irretroattività della legge

Una norma giuridica collega al verificarsi di una fattispecie (un fatto o di una serie di fatti) una specifica conseguenza giuridica (come l’acquisto o la perdita di un diritto). La fattispecie, descritta in astratto dalla norma, indica la conseguenza giuridica prevista quando si realizzano in concreto i fatti, appunto, astrattamente previsti da quella norma.

Quindi, di regola, la norma si applica alla fattispecie in essa descritta (in astratto) e che si verifica (in concreto) successivamente all’entrata in vigore della norma stessa. L’art. 11, comma 1, delle preleggi stabilisce, infatti, che “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.

La norma, invece, è retroattiva se attribuisce conseguenze giuridiche a fattispecie (concrete) avvenute in epoca anteriore rispetto alla sua entrata in vigore.

La irretroattività della legge è principio di civiltà giuridica, perché posto a presidio della certezza del diritto e a garanzia dei consociati, il cui comportamento non può essere valutato con riferimento a regole introdotte dopo la realizzazione del fatto. Però, nell’ordinamento italiano solo la norma incriminatrice penale non può in alcun caso essere retroattiva: “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato” (art. 2 c.p.). E tale principio viene elevato a rango di disposizione costituzionale dall’art. 25, comma 2, Cost.

La retroattività delle leggi di ambito privatistico non è invece preclusa completamente; la Corte costituzionale ha ritenuto giusta l’efficacia retroattiva della norma solo se bisogna tutelare i diritti e i beni di rilievo costituzionale o tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Corte cost. 28 novembre 2012, n. 264) e purché non si creino disparità di trattamento.

Hanno efficacia retroattiva anche le cosiddette “leggi interpretative”, ovvero quelle emanate per chiarire il significato di norme precedenti e che, di conseguenza, si applicano a tutti i fatti regolati da queste ultime, anche se si ci riferisce a fatti anteriori alla emanazione della legge interpretativa.

Se la norma è retroattiva, essa si applica anche alla risoluzione delle controversie ancora pendenti al momento della sua entrata in vigore (si discorre di ius superveniens). Invece, salva diversa disposizione di legge, sono rispettati gli effetti delle sentenze già passate in giudicato.

La successione di leggi

Spesso sorgono alcuni problemi in merito al susseguirsi di leggi quando si tratta di fattispecie verificatesi prima dell’entrata in vigore della modificazione normativa, ma i cui effetti perdurano nel tempo.

In specifici casi il legislatore regola il passaggio tra la norma precedente e quella nuova; e lo fa attraverso le disposizioni transitorie. È il caso della riforma del diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975, n. 151); il legislatore ha introdotto come regime generale dei rapporti patrimoniali tra i coniugi quello della comunione legale dei beni e ne ha previsto l’applicazione anche ai soggetti sposati prima dell’entrata in vigore della nuova legge. Questi ha anche individuato un periodo transitorio durante il quale ciascuno dei coniugi, con dichiarazione unilaterale, poteva impedire l’applicazione del regime di comunione; in tali casi alla coppia veniva applicato il regime della separazione dei beni.

Può anche accadere che manchi una specifica disciplina intertemporale. E in questi casi sorgono delicate questioni di diritto transitorio, o di successione di leggi nel tempo.

A tal proposito si utilizzano due criteri. In primo luogo che la legge nuova non può colpire i « diritti quesiti », ovvero quelli già entrati nel patrimonio di un soggetto (teoria del diritto quesito) e in secondo luogo che la legge nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfezionati sotto il vigore della legge precedente o se per i fatti stessi siano pendenti gli effetti (teoria del fatto compiuto).

La prima teoria viene criticata perché non è facile distinguere il diritto quesito, già maturato nel patrimonio di un soggetto, dalla semplice aspettativa dell’acquisto di un diritto, che si realizza quando la serie che ne determina l’insorgere non sia ancora completamente compiuta.

Anche la teoria dei fatti compiuti viene criticata; essa prenderebbe a riferimento criteri solo indicativi lasciando aperto il problema dei rapporti pendenti.

Quindi risulterebbe più utile risalire alla volontà del legislatore.

Infine, si discorre di ultrattività quando una disposizione di legge, in deroga al principio tempus regit actum, stabilisce che atti o rapporti, compiuti o svolti nel vigore di una nuova normativa, continuano ad essere regolati dalla legge anteriore.

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Riferimenti:

  • Torrente, Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, XXV ed.

Fonti normative:

  • artt. 73, 75, 136 Cost. ;
  • artt. 10, 11, 15 e 25 Disposizioni preliminari al Codice civile o preleggi;
  • D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092;
  • artt. 2 e 5 c.p. ;
  • L. 19 maggio 1975, n. 151.