L’inadempimento
L’inadempimento si configura quando il debitore non esegue esattamente la prestazione dovuta.
L’inadempimento si verifica, di norma, quando è già trascorso il termine previsto per l’adempimento (ad esempio, la scadenza del termine entro cui l’appaltatore avrebbe dovuto consegnare ultimato l’immobile da realizzare).
Tuttavia, può talvolta aversi inadempimento ancor prima che sia maturato il tempo dell’adempimento, qualora il debitore ometta di svolgere tempestivamente le attività preparatorie indispensabili per garantire l’effettuazione della prestazione nei tempi stabiliti, quando il debitore non proceda nell’esecuzione secondo le condizioni stabilite ed a regola d’arte, quando sia certo che il debitore non sarà in grado, alla scadenza, di eseguire la prestazione (ad es., perché ha alienato a terzi il bene che avrebbe dovuto consegnare), quando il debitore abbia formalmente dichiarato che non è in grado o non intende adempiere.
L’inadempimento può essere totale, laddove la prestazione è mancata completamente, oppure parziale, quando la prestazione è stata sì effettuata, ma non correttamente (c.d. adempimento inesatto). Quest’ultimo caso si manifesta in varie forme, che possono riguardare, alternativamente o cumulativamente, aspetti quali la diligenza richiesta nell’adempimento (come accade in ambito medico, ove un errore operativo comprometta il risultato), la perizia necessaria, la prudenza indispensabile, il luogo stabilito per l’esecuzione della prestazione, l’adeguatezza dei mezzi ecc.
Si distingue, inoltre, l’inadempimento assoluto (o definitivo), quando è impossibile che la prestazione venga eseguita in futuro (come l’omessa impugnazione in termini da parte dell’avvocato della sentenza che avrebbe dovuto appellare), dall’inadempimento relativo, che si configura quando la prestazione, pur non eseguita nei termini, potrebbe comunque essere adempiuta successivamente. In tale contesto si parla di ritardo, il quale è una situazione transitoria che può evolvere in un adempimento tardivo oppure in un inadempimento definitivo (ad es., perché, per il lungo tempo trascorso, il creditore non può più ritenersi tenuto a ricevere la prestazione: artt. 1256, comma 2, 1453, comma 3, 1457 c.c.).
La responsabilità contrattuale
La responsabilità contrattuale è disciplinata dall’art. 1218 c.c. secondo cui il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Dunque, se l’inadempimento è dovuto a un’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al debitore, l’obbligazione si estingue e il debitore non è più tenuto ad adempiere (art. 1256, comma 1, c.c.); in caso contrario, il debitore inadempiente è obbligato a risarcire il danno subito dal creditore (art. 1218 c.c.). Sebbene in questo caso si parli di “responsabilità contrattuale” il termine non è del tutto corretto, in quanto tale responsabilità concerne l’inadempimento dell’obbligazione qualunque ne sia la fonte e non del contratto in sé.
In caso di inadempimento assoluto, la prestazione risarcitoria si sostituisce a quella originaria ormai non più eseguibile (ad esempio, la distruzione di un quadro che avrebbe dovuto essere consegnato); in caso di inadempimento relativo, invece, la prestazione risarcitoria si aggiunge a quella originaria, che continua anch’essa ad essere dovuta, seppur tardivamente (come nel caso in cui la consegna di un quadro venga ritardata oltre il termine stabilito).
Il problema centrale riguarda la determinazione dei casi in cui il debitore debba rispondere delle conseguenze dannose subite dal creditore a causa dell’inadempimento e quando, invece, tali conseguenze debbano restare a carico del creditore stesso, senza possibilità di risarcimento.
L’art. 1218 c.c. stabilisce che il debitore deve sempre rispondere delle conseguenze dannose dell’inadempimento, salvo che l’inadempienza sia stata determinata da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al debitore stesso.
Tale locuzione ha generato ampi dibattiti dottrinali, e oggi prevale l’opinione secondo cui la norma non detta il criterio per individuare le cause di giustificazione dell’inadempimento, ma rinvia ad una pluralità di criteri, da applicare caso per caso, variamente rintracciabili nell’ordinamento.
Il regime della responsabilità contrattuale, quindi, varierebbe in funzione della natura dell’obbligazione concretamente presa in considerazione.
Innanzitutto, in molte situazioni il debitore è esente da responsabilità se ha agito con la diligenza, prudenza e perizia richieste, rispondendo “per colpa” solo quando tali elementi siano carenti.
Ciò vale per diversi contratti, tra cui locazione (art. 1587 c.c.), deposito (art. 1768 c.c.), comodato (art. 1807 c.c.), vendita (art. 1494 c.c.), lavoro subordinato (art. 2104 c.c.) e mandato (art. 1710 c.c.), ecc.
Secondo l’opinione tradizionale il debitore risponde per colpa nelle obbligazioni di mezzi, ossia quelle in cui è tenuto a svolgere una determinata attività con diligenza, prudenza e perizia, senza però garantire che detta attività si traduca in un risultato utile per il creditore. Un esempio è la prestazione dell’avvocato, che deve far valere la pretesa del cliente in giudizio impiegando tutti i mezzi idonei, ma non è obbligato a vincere la causa (Cass. 22 novembre 2018, n. 3169).
In tutti questi casi, il problema diviene quello di chiarire quale sia il grado di diligenza concretamente richiesto, nel singolo caso, al debitore.
L’art. 1176, comma 1, c.c. stabilisce che il debitore deve adottare la diligenza del buon padre di famiglia, cioè di una persona onesta, attenta e coscienziosa.
Tuttavia, la diligenza richiesta varia, in pratica, in base al tipo di attività dovuta, alla competenza del debitore e al tipo di rapporto obbligatorio e alla gratuità o onerosità della prestazione.
In generale, si esige una maggiore diligenza dai professionisti rispetto a chi opera senza particolari competenze; ancora, a chi effettua la prestazione a titolo gratuito si richiede, di regola, un diverso, e meno gravoso, impegno rispetto a quello che si può invece pretendere da chi effettua la prestazione a fronte del pagamento di un corrispettivo.
Tuttavia, quando la prestazione incide su valori fondamentali della persona, come la sicurezza e l’incolumità fisica, la diligenza richiesta resta invariata anche se l’obbligazione è gratuita.
Inoltre, l’art. 2236 c.c. stabilisce che, se l’adempimento comporta la soluzione di problemi tecnici di particolare complessità, il professionista intellettuale risponde dei danni sofferti dal cliente solo in caso di dolo o colpa grave (Cass. 15 giugno 2018, n. 15732).
A differenza delle situazioni precedentemente analizzate, vi sono casi in cui il debitore è tenuto a rispondere dell’inadempimento anche se non gli si può imputare alcuna negligenza, imprudenza o imperizia.
Ad esempio, nel contratto di trasporto di cose, il vettore è responsabile della perdita o dell’avaria dei beni anche se queste si verificano senza sua colpa, salvo dimostrazione del caso fortuito o che la perdita dipende da cause che sfuggono alla sua sfera di controllo (art. 1693 c.c.).
Regole simili si applicano agli albergatori (artt. 1783 ss. c.c.), ai gestori di grandi magazzini (art. 1787 c.c.) e alle banche che gestiscono cassette di sicurezza (art. 1839 c.c.). Queste obbligazioni, assunte da imprenditori nei confronti degli utenti, implicano la responsabilità per rischi tipici, prevedibili e calcolabili, dell’attività, anche senza colpa (Cass. 7 luglio 2016, n. 13919).
Un’ipotesi analoga riguarda le obbligazioni di cose generiche, in cui il debitore, anche non in colpa (ad es., perché si è tempestivamente approvvigionato del mangime da consegnare, che è però andato distrutto nell’incendio del suo magazzino), risponde dei rischi inerenti all’organizzazione della prestazione, visto che quest’ultima rimane pur sempre possibile (genus numquam perit). Se il bene destinato all’adempimento viene distrutto, egli deve comunque procurarne un altro sul mercato, salvo che l’inadempimento sia dovuto a circostanze estranee alla sua sfera organizzativa, come un provvedimento dell’autorità sanitaria che ne vieti la commercializzazione.
Anche nel caso di somme di denaro (il denaro rientra tra le cose generiche), il debitore risponde pur in assenza di una sua condotta colpevole , salvo che l’inadempienza sia determinata da eventi straordinari e imprevedibili, del tutto estranei al rischio tipicamente inerente all’organizzazione di una prestazione di denaro.
L’art. 1228 c.c. prevede la responsabilità del debitore per i fatti dolosi o colposi degli ausiliari di cui si avvale nell’adempimento dell’obbligazione, principio applicato agli imprenditori e alle prestazioni complesse.
In tutte queste ipotesi si parla di “responsabilità oggettiva” poiché la mancanza di colpa dell’obbligato non è sufficiente per esonerarlo dalla responsabilità per inadempimento.
Tuttavia, il nostro ordinamento prevede che il debitore possa essere esonerato dalla responsabilità qualora l’adempimento sia impedito da sopravvenienze che non possono essere prevenute o superate con condotte ragionevolmente esigibili dal debitore stesso.
Dal punto di vista processuale, il creditore che, a fronte dell’inadempimento del debitore, agisca in giudizio per l’adempimento della prestazione o la risoluzione contrattuale e/o il risarcimento del danno, ha l’onere (ex art. 2697 c.c.) di fornire la prova del suo credito, potendo limitarsi ad allegare l’inadempimento (ovvero l’inesatto adempimento) che lo stesso imputa alla controparte. Sarà il debitore a dover eventualmente fornire, con qualsiasi mezzo(Cass. 2 novembre 2009, n. 23142), la prova di aver esattamente eseguito la prestazione dovuta.
Diversamente, nel caso in cui il creditore contesti l’inadempimento di obbligazioni c.d. negative, il creditore ha l’onere di fornire la prova non solo del suo diritto di credito, ma anche quella dell’inadempimento dell’obbligato.
Quando l’inadempimento non è contestato ovvero non è dimostrato l’esatto adempimento, spetta al debitore, che intenda esimersi dalla responsabilità contrattuale, provare l’esistenza di una causa di giustificazione del proprio inadempimento (art. 1218 c.c.).
Grava, in ogni caso, sul creditore dell’obbligazione che si afferma inadempiuta l’onere di fornire la prova del danno di cui chiede il risarcimento, nonché del nesso causale fra la condotta inadempiente del debitore e detto danno.
Il danno risarcibile
Il danno di cui il creditore può chiedere il risarcimento, ex art. 1218 c.c., varia a seconda della natura dell’inadempimento.
Nel caso di inadempimento assoluto, il danno risarcibile è costituito dalle conseguenze negative della definitiva inattuazione della prestazione dovuta e si sostituisce a quest’ultima; nel caso di inadempimento relativo, invece, il danno risarcibile è costituito dalle conseguenze negative del ritardo fatto registrare nell’esecuzione della prestazione dovuta, che deve sempre adempiersi, e si aggiunge a quest’ultima.
In ogni caso, il risarcimento del danno deve includere (art. 1223 c.c.) sia il danno emergente (perdita subita), sia il lucro cessante (mancato guadagno), come confermato dalla giurisprudenza (Cass. 10 marzo 2016, n. 4718; Cass. 8 marzo 2018, n. 5613).
La giurisprudenza più recente spiega che, anche in via contrattuale, oltre al danno patrimoniale, è risarcibile anche il danno non patrimoniale, ma solo quando l’inadempimento abbia determinato la lesione di diritti inviolabili della persona. Ad esempio, un chirurgo negligente che cagioni la perdita della funzionalità di un arto risponderà sia del danno patrimoniale (spese mediche e diminuzione reddituale) sia del danno non patrimoniale (sofferenza morale e modifiche alle abitudini di vita).
In ogni caso, risarcibile è soltanto il danno che sia conseguenza “immediata e diretta” dell’inadempimento (art. 1223 c.c.).
Inoltre, se l’inadempimento o il ritardo non derivano da dolo, il risarcimento è limitato al danno prevedibile al momento della nascita dell’obbligazione (art. 1225 c.c.).
Il creditore, nel chiedere il risarcimento, deve allegare e provare le singole “voci” di danno per cui pretende il ristoro.
Per evitare tale onere probatorio, le parti possono concordare in via preventiva una clausola penale (artt. 1382 ss. c.c.), stabilendo un importo forfettario dovuto dal debitore in caso di inadempimento, senza necessità di provare il danno concreto.
Se il creditore dimostra di aver certamente subito un danno, ma non riesce a quantificarne l’ammontare preciso, il giudice può procedere alla liquidazione, cioè alla determinazione della somma di danaro che il debitore inadempiente dovrà corrispondere al creditore, anche con valutazione equitativa (art. 1226 c.c.). Tuttavia, quest’ultima è possibile solo quando l’esistenza del danno sia provata e risulti impossibile o particolarmente difficile determinarne il valore esatto (Cass. 8 marzo 2018, n. 5613; Cass. 22 febbraio 2018, n. 4310).
La liquidazione del danno viene ridotta se il creditore ha contribuito, con una condotta colposa, a determinare il danno (art. 1227, comma 1, c.c.). L’onere di provare il concorso colposo del creditore grava sul debitore che intende ottenere una riduzione del risarcimento (Cass. 31 ottobre 2014, n. 23148).
In ogni caso, il creditore ha il dovere di non aggravare il pregiudizio arrecatogli dall’altrui inadempienza e di adottare le misure necessarie per limitare le conseguenze dannose dell’inadempimento, sempre che non comportino notevoli rischi o sacrifici sproporzionati (art. 1227, comma 2, c.c.).
L’onere di allegare e provare che il creditore non ha adottato le misure idonee a limitare il danno grava sul debitore inadempiente (Cass. 27 luglio 2015, n. 15750).
Anche nella responsabilità contrattuale è applicabile la regola prevista per la responsabilità extracontrattuale dall’art. 2058 c.c., che consente al danneggiato di chiedere il risarcimento in forma specifica anziché per equivalente (Cass. 17 giugno 2015, n. 12582).
Inadempimento delle obbligazioni pecuniarie di valuta e danno risarcibile
Per quanto riguarda le obbligazioni pecuniarie di valuta, che rappresentano la figura più diffusa di obbligazione, le norme sull’entità del danno da risarcire subiscono una parziale deroga ai sensi dell’art. 1224 c.c.
Difatti, dal giorno della mora il debitore, che non abbia puntualmente pagato la somma dovuta, è tenuto automaticamente al pagamento degli interessi moratori in aggiunta al capitale, senza necessità che il creditore dimostri di aver subito un danno.
L’entità di tali interessi può essere fissata convenzionalmente, per iscritto (art. 1284, comma 3, c.c.), dalle parti, purché nei limiti del tasso soglia, oltre il quale si configurano come usurari (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27442).
Se le parti non stabiliscono l’entità degli interessi moratori, dal giorno della mora il debitore deve corrispondere, oltre al capitale, gli interessi al tasso legale, senza che il creditore debba dimostrare di aver realmente subito un danno. La legge presuppone che il creditore, se avesse ricevuto la somma tempestivamente, l’avrebbe impiegata con un rendimento non inferiore alla misura degli interessi legali, e il debitore non può provare il contrario (art. 1224, comma 1, c.c.).
Se il debitore era già tenuto a corrispondere interessi convenzionali, prima della scadenza, superiori al tasso legale, gli interessi moratori sono automaticamente dovuti nella stessa misura, anche in assenza di una specifica previsione contrattuale (art. 1224, comma 1, c.c.).
Tuttavia, gli interessi moratori richiedono un’apposita domanda da parte del creditore per poter essere liquidati in suo favore dal giudice (Cass. 19 settembre 2016, n. 18292).
Se il creditore non si accontenta degli interessi moratori, ma sostiene di aver subito un danno maggiore (art. 1224, comma 2, c.c.), deve fornire una prova concreta. Ad esempio, se sostiene che la mancata disponibilità tempestiva del capitale dovutogli gli abbia impedito di concludere un contratto particolarmente vantaggioso, causando una perdita superiore agli interessi legali, deve dimostrarlo in modo puntuale e convincente. In assenza di tale prova, potrà ottenere solo gli interessi moratori (Cass. 30 giugno 2015, n. 13328).
La questione diventa delicata quando, in caso di deprezzamento monetario, il creditore chiede la rivalutazione automatica della somma dovutagli come risarcimento del maggior danno, per il periodo corrispondente alla mora del debitore.
Il legislatore prevede questo principio solo per alcune tipologie di crediti, come l’assegno di mantenimento dei figli (art. 337-ter, comma 5, c.c.); i crediti relativi al trattamento di fine rapporto spettante al lavoratore subordinato (art. 429, comma 3, c.p.c.); così come prevede che l’assegno per il coniuge divorziato debba essere rivalutato automaticamente dalla sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio.
Negli altri casi, invece, il creditore deve dimostrare che un tempestivo adempimento avrebbe evitato gli effetti negativi dell’inflazione.
Le sezioni unite della Suprema Corte hanno stabilito che, poiché il tasso di rendimento delle più comuni forme di investimento è generalmente superiore al tasso degli interessi legali, il creditore ha diritto al risarcimento del maggior danno, in misura presuntivamente pari alla differenza tra il rendimento netto dei titoli di Stato fino a dodici mesi (o, se superiore, il tasso di inflazione) e quello degli interessi legali, se inferiore (Cass., sez. un., 16 luglio 2008, n. 19499; Cass. 19 marzo 2018, n. 6684). Il debitore, tuttavia, può provare che il ritardo nell’adempimento non ha causato alcun danno o che il danno è stato inferiore al saggio degli interessi legali, mentre il creditore ha la possibilità di dimostrare che il danno subito è stato maggiore, ad esempio perché costretto a ricorrere al credito bancario.
Questo principio, tuttavia, non gode di unanimità in giurisprudenza, rendendo il tema particolarmente delicato.
In ogni caso, il maggior danno non può essere liquidato a favore del creditore, se quest’ultimo non ha formulato una specifica domanda al riguardo.