L’inattuazione dell’art. 40 Cost.
Il diritto di sciopero è sancito a livello costituzionale e l’art. 40 Cost. rinvia al legislatore ordinario il compito di regolarne le modalità di esercizio. In realtà, la norma costituzionale è stata considerata, sin dalle origini, pur in assenza della normativa di attuazione, applicabile direttamente dal giudice. L’assenza di una normativa di legge ordinaria spiega perché la giurisprudenza abbia dovuto assolvere una funzione di sostituzione, risolvendo tre ordini di problemi:
- la qualificazione dello sciopero e la conseguente determinazione delle finalità lecite del medesimo;
- la questione della titolarità del diritto di sciopero, risolta dalla dottrina maggioritaria privilegiando la tesi della titolarità individuale;
- le modalità di esercizio del diritto di sciopero.
Le disposizioni penali in tema di sciopero
Le norme del codice penale sardo sancivano il divieto di coalizione e consideravano reati sia lo sciopero sia la serrata. Il codice penale Zanardelli del 1889 depenalizzò lo sciopero che, insieme alla serrata, restava reato solo se posto in essere con violenza o minaccia. Quindi, lo sciopero fu considerato una libertà di fatto, cioè un atto penalmente lecito, mentre continuava a essere considerato un illecito civile, cioè un inadempimento tale da giustificare il licenziamento.
Il codice penale Rocco del 1930 sanzionava penalmente ogni forma di sciopero e di serrata, sia nel settore privato, sia nel settore pubblico.
Oltre allo sciopero per fini contrattuali, ossia quello diretto contro il datore di lavoro al fine di ottenere la modifica delle condizioni di lavoro fissate nel contratto collettivo, veniva sanzionato anche lo sciopero per fini non contrattuali, ossia per fine politico o per costringere la pubblica autorità a emettere o omettere un provvedimento ovvero ad influire sulle deliberazioni di essa o sciopero di protesta o di solidarietà, nonché la serrata dei piccoli imprenditori senza dipendenti, successivamente qualificata come sciopero da una sentenza della Corte costituzionale.
Sembra opportuno richiamare le disposizioni del codice Rocco, anche se ormai l’art. 502 c.p. è stato dichiarato incostituzionale e gli artt. 330-333 c.p. sono stati abrogati, perché queste norme spiegano come le finalità dello sciopero siano molteplici e non si esauriscano soltanto in rivendicazioni di tipo contrattuale.
Dottrina e giurisprudenza costituzionale nella qualificazione giuridica dello sciopero
Una delle prime dottrine post-costituzionali aveva definito lo sciopero come astensione concertata dal lavoro per la tutela di un interesse economico-professionale. In base a questa definizione fu qualificato come diritto soltanto lo sciopero per fini contrattuali.
Con la promulgazione della Costituzione lo sciopero fu elevato a rango di diritto costituzionale e fu qualificato dalla dottrina più risalente come diritto potestativo.
La qualificazione dello sciopero come diritto potestativo realizzò due effetti: in primo luogo contribuì a consolidare la tesi della titolarità individuale del diritto di sciopero e a scinderne la titolarità dal problema dell’esercizio necessariamente collettivo; in secondo luogo, individuando il soggetto passivo del diritto di sciopero esclusivamente nel datore di lavoro, portò a considerare legittimi soltanto gli scioperi diretti contro quest’ultimo.
D’altra parte, se è vero che l’esercizio del diritto potestativo legittima il lavoratore a sospendere l’esecuzione della prestazione, è altrettanto vero che il datore di lavoro, a fronte della sospensione dell’obbligazione di lavorare, è legittimato a sospendere la sua obbligazione, cioè la retribuzione. Non sembra pertanto che il datore di lavoro venga a trovarsi in una situazione di vera e propria soggezione.
In un secondo tempo lo sciopero fu qualificato dalla dottrina come diritto assoluto della persona, tale qualificazione ha conseguito due obbiettivi. In primo luogo, ha individuato nello sciopero un mezzo per la realizzazione del principio di uguaglianza sostanziale; in secondo luogo, ha rafforzato la inscindibilità del binomio titolarità individuale-esercizio collettivo del diritto di sciopero, favorendo in questo modo l’accantonamento della tesi della titolarità collettiva dello sciopero.
Le ricostruzioni dottrinali dello sciopero sono state confermate anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e sono state il presupposto di diverse sentenze che hanno ampliato le finalità dello sciopero legittimo e il numero dei soggetti contro i quali tale diritto può essere fatto valere, cioè non soltanto il datore di lavoro, ma anche il Governo e la Pubblica Amministrazione.
L’art. 502 c.p. puniva lo sciopero per fini contrattuali e fu dichiarato incostituzionale per il palese contrasto con l’art. 40 Cost.
In realtà, la tesi secondo cui la Costituzione proteggerebbe solo lo sciopero per fini contrattuali, perché solo questo ha come oggetto una pretesa che può essere soddisfatta dal datore di lavoro, è stata presto superata dalla giurisprudenza costituzionale, che ha ricompreso nella fattispecie prevista dall’art. 40 non solo lo sciopero economico ma anche lo sciopero d’imposizione politico-economica. Con questa definizione si intende lo sciopero effettuato per rivendicazioni nei confronti dei pubblici poteri rispetto a beni che non sono nella disponibilità dei datori di lavoro, ma che trovano comunque riconoscimento e tutela nella disciplina dei rapporti economici.
La Corte costituzionale ha successivamente affermato anche la legittimità dello sciopero politico in senso stretto o “puro”. Questa forma di sciopero si esercita contro atti politici del Governo.
La Corte costituzionale, dichiarando la illegittimità costituzionale dell’art. 503 c.p. nella parte in cui incriminava lo sciopero per fini non contrattuali, ha sancito, accanto al diritto di sciopero, la rilevanza della libertà di sciopero in quanto tale e cioè indipendentemente dal diritto di sciopero.
Secondo questa ricostruzione lo sciopero politico è uno strumento tipicamente democratico che consente al lavoratore un’attiva partecipazione alla vita nazionale.
La configurazione dello sciopero politico come libertà e non come diritto dovrebbe produrre effetti diversi sul rapporto di lavoro. Infatti, l’esercizio del diritto di sciopero produce la sospensione del rapporto di lavoro, mentre l’esercizio della libertà di sciopero, pur penalmente legittima, risolvendosi in un’astensione ingiustificata dal lavoro, dovrebbe essere considerata una forma di inadempimento del prestatore di lavoro e, in quanto tale, dovrebbe legittimare l’irrogazione da parte del datore di lavoro di una sanzione disciplinare e addirittura del licenziamento.
A ben vedere, però, non è dato constatare una diversità di effetti sul rapporto di lavoro, perché l’irrogazione della sanzione disciplinare e del licenziamento possono essere considerati comportamenti antisindacali ai sensi dell’art. 28 St. lav., in quanto lo sciopero politico, pur non essendo qualificabile come diritto, è comunque una forma di esercizio di attività sindacale.
Va comunque precisato che la Corte costituzionale ha lasciato in vigore l’art. 503 c.p. solo in due casi:
- quando lo sciopero politico “sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale“;
- nell’ipotesi in cui “oltrepassando i limiti di una legittima forma di pressione, si converta in uno strumento atto ad impedire od ostacolare il libero esercizio di quei diritti e poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare“.
Tuttavia, non sembra agevole individuare i casi in cui si considerano oltrepassati “i limiti di una legittima forma di pressione“, soprattutto se si considera che la stessa Corte ha ritenuto legittimo lo sciopero di coazione sulla pubblica autorità.
La Consulta, senza dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 505 c.p. che punisce lo sciopero di solidarietà, con una sentenza interpretativa di rigetto ha riconosciuto la legittimità di questa forma di protesta ogni qualvolta il giudice ordinario accerti l’esistenza di un collegamento necessario degli interessi economici del gruppo che si astiene dal lavoro a sostegno delle pretese di un altro gruppo già in sciopero.
In conclusione, la giurisprudenza costituzionale, sulla scorta delle ricostruzioni della dottrina, ha contribuito, in misura determinante, ad ampliare progressivamente l’area dello sciopero legittimo.
La questione della titolarità del diritto di sciopero
Secondo l’opinione prevalente, lo sciopero è un diritto individuale, perché titolare del diritto è il singolo lavoratore, e ad esercizio collettivo, perché lo sciopero è finalizzato a tutelare un interesse collettivo, non semplicemente un interesse individuale del lavoratore.
La distinzione tra titolarità individuale ed esercizio collettivo può sollevare qualche perplessità. Come il soggetto collettivo è il solo legittimato a concludere per i lavoratori il contratto collettivo, parimenti dovrebbe essere il soggetto collettivo a valutare l’opportunità di esercitare il diritto di sciopero, ferma ovviamente la libertà dei singoli lavoratori di aderirvi o meno.
Per questa ragione, alla formula della titolarità individuale ed esercizio collettivo dello sciopero potrebbe contrapporsi la formula della titolarità collettiva e dell’esercizio individuale ovvero quella della doppia titolarità, sia individuale sia collettiva.
La titolarità collettiva del diritto di sciopero presuppone che la proclamazione sia un requisito di legittimità dell’esercizio di tale diritto. Viceversa, la titolarità individuale del diritto di sciopero non riconosce alcuna rilevanza alla proclamazione dello sciopero ai fini della legittimità dell’astensione dal lavoro ed impone ovviamente di considerare il diritto di sciopero come diritto indisponibile.
Del resto, se osserviamo la realtà, è piuttosto frequente l’ipotesi in cui il contratto collettivo di livello superiore demandi la regolamentazione di certe materie al livello inferiore ed escluda espressamente la riapertura del conflitto per le materie già regolate dal livello superiore (cosiddette clausole di tregua sindacale).
In questi casi non si tratta di accertare quale sia stata la volontà delle parti collettive, perché è evidente che se le stesse sottoscrivono le clausole di tregua significa che esse si sono vincolate a non proclamare lo sciopero.
Si dovrebbe, invece, in tali ipotesi, accertare quale sia stata la volontà delle parti individuali, cioè dei singoli lavoratori. Più precisamente, si dovrebbe verificare se i lavoratori, in virtù dell’iscrizione al sindacato stipulante o del rinvio contenuto nel contratto individuale al contratto collettivo, abbiano accettato di non ricorrere allo sciopero per il periodo di vigenza del contratto collettivo e per quelle materie dallo stesso regolate. Ma non è assolutamente agevole desumere dalla sottoscrizione di questi atti la volontà espressa di ciascun lavoratore di non scioperare.
Ecco perché, fino a quando nel nostro ordinamento sarà prevalente la titolarità individuale del diritto di sciopero, sarà difficile attribuire efficacia normativa alle clausole di tregua sindacale.