Gli effetti diretti delle norme dei Trattati. La responsabilità patrimoniale dello Stato membro
Le norme dei Trattati non producono obblighi reciproci solo fra gli Stati contraenti, ma possono produrre effetti diretti anche all’interno degli ordinamenti statali quando siano sufficientemente chiare, precise e incondizionate, ovvero quando non risultino subordinate all’emanazione di atti di diritto interno, e quando l’obbligo che ne deriva non sia soggetto a un termine per la sua osservanza.
In Van Gend en Loos si specifica che dette norme possono creare a favore dei singoli (persone fisiche e giuridiche) posizioni giuridiche soggettive direttamente tutelabili dinanzi ai giudici nazionali anche quando impongono obblighi di comportamento solo nei confronti degli Stati membri o delle istituzioni.
Tale effetto è di quelle norme dei Trattati che impongono un obbligo di non fare. In tema di divieto di dazi doganali all’importazione l’art. 30 TFUE “pone un divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo non già di fare, ma di non fare”; pertanto “tale divieto è per sua natura perfettamente atto a produrre direttamente degli effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli Stati membri ed i loro amministrati i cui diritti altrimenti potrebbero rimanere privi di tutela giurisdizionale diretta”. Ha dunque “valore precettivo ed attribuisce ai singoli dei diritti soggettivi che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare”.
Questa conclusione ha conosciuto successivamente numerose conferme, ad esempio con riguardo al divieto di restrizioni quantitative alla circolazione intracomunitaria delle merci (art. 34 TFUE) che è “imperativo, esplicito e non necessita di alcun intervento ulteriore degli Stati membri o delle istituzioni”.
La stessa efficacia è stata riconosciuta anche a norme che impongono obblighi di fare, quali la soppressione, prevista all’art. 110 TFUE, delle discriminazioni di qualsiasi natura imposte ai prodotti importati e delle tasse di effetto equivalente; l’abolizione di qualsiasi discriminazione che ostacoli la libera circolazione dei lavoratori degli Stati membri (art. 45 TFUE, già 39 CE).
E ancora l’obbligo di assicurare la parità di retribuzione fra i due sessi per lo stesso lavoro (art. 157 TFUE).
Rappresenta un utilissimo strumento per rafforzare la tutela degli individui nell’ordinamento integrato dell’Unione, oltre che un ulteriore mezzo per garantire il rispetto del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri.
Esso comporta l’attribuzione ai singoli non solo di diritti ma anche di obblighi, contribuisce notevolmente a rinforzare l’efficacia (o effetto utile) del diritto dell’Unione, consentendo ai privati di chiedere al giudice nazionale di disapplicare il diritto interno contrario alle norme dei Trattati dotate di efficacia diretta.
L’aspetto più significativo della giurisprudenza della Corte sugli effetti diretti concerne la possibilità per i privati di far valere le posizioni giuridiche soggettive derivanti direttamente da una norma dei Trattati non solo nei confronti dello Stato e dei suoi organi centrali e periferici ma anche nei confronti di altri soggetti privati (c.d. “effetti orizzontali”). Così, il divieto di ogni discriminazione in base alla nazionalità, sancito negli artt. 12 e 39 CE (ora 18 e 45 TFUE) può essere fatto valere anche nei confronti di privati.
Alle stesso modo, il principio della parità di retribuzione fra i lavoratori di sesso diverso per uno stesso lavoro, di cui all’art. 141 CE (ora 157 TFUE), vale anche “per tutte le convenzioni che disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato, come pure per i contratti tra privati”, anche se la norma si rivolge agli Stati.
L’effetto diretto anche orizzontale attribuito a certe norme del Trattato deriva pure dalla considerazione che esse sono spesso, in pari tempo, espressione di un principio generale o fondamentale dell’ordinamento dell’Unione (uguaglianza, non discriminazione e parità di trattamento, libertà di circolazione e così via).
Molto criticata è stata invece la decisione della Corte di giustizia di riconoscere effetti diretti “verticali inversi” (vale a dire a danno dei privati) all’art. 325 TFUE, nella parte in cui richiede agli Stati membri di contrastare le frodi e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, trattandosi di una disposizione che sembra rivestire un contenuto solo programmatico. Nella sentenza “Taricco”, la Corte ha infatti richiesto ai giudici italiani di disapplicare le regole interne sulla prescrizione dei reati, nella misura in cui non consentono un serio contrasto ai diffusi fenomeni di elusione del pagamento dell’IVA, a danno delle finanze dell’Unione. Tale pronuncia ha motivato la richiesta di più giudici italiani di rivolgersi alla Corte costituzionale allo scopo di attivare il meccanismo dei “controlimiti” costituzionali rispetto alla prevalenza del diritto europeo sul diritto interno.
D’altra parte la Corte ha negato, in molti casi, l’efficacia diretta di una disposizione dei Trattati, in particolare quando l’obbligo lasci agli Stati membri ampi margini di discrezionalità non suscettibili di sindacato da parte del giudice nazionale, o quando l’applicazione di quella disposizione sia subordinata a una particolare procedura implicante un potere discrezionale.
La Corte rifiutò di riconoscere effetto diretto all’art. 67 CE (ora 63 TFUE) perché l’obbligo di liberalizzare i movimenti di capitali era allora previsto solo “nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune”. Ciò significa, in altri termini, che tale disposizione non aveva carattere assoluto e incondizionato (al contrario di quanto ora previsto dall’art. 63 TFUE), dipendendo dalle esigenze del mercato comune, dalla valutazione dei rischi e dei vantaggi in un dato momento e dal grado di integrazione raggiunto nei settori interessati dai movimenti di capitali. Poi mentre nella sentenza Defrenne II la Corte aveva riconosciuto carattere di efficacia diretta al divieto di discriminazione fra uomini e donne per quanto attiene alla remunerazione per un medesimo lavoro di cui all’art. 141 CE (ora 157 TFUE), nella sentenza Defrenne III si è rifiutato di estendere tale interpretazione alle altre condizioni di lavoro, diverse dalla parità di remunerazione, in assenza di misure attuative degli artt. 136 e 137 CE (ora 151 e 153 TFUE), ritenuti avere valore solo programmatico.
Aspetti specifici
Il dovere di dare piena applicazione alle norme dei Trattati provviste di efficacia diretta incombe non solo ai giudici nazionali ma anche a tutti gli organi dell’amministrazione statale, centrali o periferici.
I Trattati non prevedono in modo specifico quali siano le conseguenze per gli Stati membri derivanti dall’inosservanza degli obblighi loro imposti dai Trattati (salvo quanto previsto dall’art. 260 TFUE che ha introdotto la possibilità di comminare sanzioni pecuniarie), limitandosi a contemplare la procedura di infrazione finalizzata al suo accertamento. Tuttavia, la Corte di giustizia, facendo ricorso ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dell’Unione, in particolare al principio di leale collaborazione di cui all’art. 4, par. 3, TUE, e ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri (tra cui il principio in base al quale ogni comportamento illegale comporta l’obbligo di risarcire il pregiudizio arrecato), ha affermato il diritto degli individui al risarcimento del danno subito a seguito dell’inadempimento dello Stato membro, al duplice fine di dare efficacia al diritto dell’Unione e di garantire una tutela giurisdizionale ai singoli che subiscono un pregiudizio dalla violazione di una norma di derivazione europea. È proprio in questo senso che la Corte afferma che “sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe inficiata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro”. Quindi il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli in simili casi “è inerente al sistema dei Trattati”.
Pertanto, gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto dell’Unione ai primi imputabili, anche se conseguenti all’applicazione di provvedimenti nazionali di natura legislativa, in particolare quando il legislatore operi in un settore nel quale disponga di un ampio potere discrezionale in ordine alle scelte normative e anche quando la violazione del diritto dell’Unione derivi da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, o sia comunque divenuta definitiva.
Lo Stato è responsabile anche quando la violazione del diritto dell’Unione, che pregiudichi i diritti da esso attribuiti ai singoli, derivi dall’attività di interpretazione di norme giuridiche.
Tale risarcimento inoltre deve essere adeguato al danno subito, comprensivo eventualmente anche del lucro cessante, e può riguardare anche i danni verificatisi prima che una sentenza della Corte di giustizia abbia accertato l’inadempimento contestato.
Affinché la responsabilità dello Stato possa essere accertata, occorre tuttavia che venga in rilievo una “violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro, dei limiti posti al suo potere discrezionale” e sempre a condizione che la norma violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli ed esista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai singoli (analogamente a quanto richiesto in materia di responsabilità extra-contrattuale dell’Unione).
Sarà il giudice nazionale ad apprezzare il carattere della violazione, tenuto conto del grado di chiarezza e di precisione della norma dell’Unione, dell’ampiezza del potere discrezionale dalla stessa attribuito alle autorità nazionali, del carattere intenzionale o involontario della violazione, della scusabilità o meno di un eventuale errore di diritto.
Spetterà ai singoli ordinamenti giuridici nazionali, l’individuazione delle forme e delle modalità attraverso le quali disciplinare in concreto l’azione risarcitoria. Tali modalità, precisa la Corte, non dovranno tuttavia né essere meno favorevoli rispetto a quelle previste per analoghe azioni contemplate dal diritto interno (principio di equivalenza), né rendere eccessivamente difficile o praticamente impossibile la tutela risarcitoria di cui trattasi (principio di effettività).