Giustizia internazionale
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Trattamento delle persone fisiche e giuridiche straniere

La cittadinanza delle persone fisiche e la nazionalità delle persone giuridiche

Gli Stati godono di ampia libertà nell’attribuzione della cittadinanza agli individui. La Corte permanente di giustizia internazionale statua che le questioni di nazionalità sono ricomprese in linea di principio nel dominio riservato degli Stati. Per l’attribuzione automatica della cittadinanza, gli Stati usano due criteri di collegamento: ius sanguinis, cioè l’essere discendente di un proprio cittadino e ius soli, cioè l’essere nato nel territorio. La cittadinanza si può acquisire anche per naturalizzazione, ovvero mediante un provvedimento dello Stato territoriale che accerta il possesso di determinati requisiti da parte dello straniero. La libertà degli Stati in materia di attribuzione della cittadinanza è riconosciuta dalla Convenzione Internazionale dell’Aja, secondo cui spetta a ciascuno Stato determinare con la propria legislazione quali siano i suoi cittadini; tale legge deve essere compatibile con le convenzioni internazionali, con la consuetudine internazionale e con i principi di diritto generalmente riconosciuti in materia di cittadinanza. La libertà dello Stato in materia di attribuzione della stessa non è assoluta e limiti possono derivare dal diritto internazionale, consuetudinario o convenzionale.

Da ricordare che la cittadinanza può essere acquisita per effetto di una successione di Stati. Nell’ordinamento italiano la cittadinanza è disciplinata dalla legge numero 91 del 1992. Questa è improntata sul criterio dello ius sanguinis, ma prevede anche l’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione, cioè con provvedimento ad hoc della pubblica amministrazione. E’ oggetto di discussione la possibilità di attribuire automaticamente la cittadinanza ai nati in Italia da cittadini stranieri, senza un provvedimento di naturalizzazione, dopo una residenza minima nel nostro territorio. Anche per quanto riguarda le persone giuridiche, l’attribuzione della nazionalità ricade, in linea di principio, nel dominio riservato dagli Stati.

La protezione diplomatica di persone fisiche e giuridiche

Qualora la violazione di una norma di diritto internazionale provochi un danno ad una persona fisica o giuridica, lo Stato di cui la persona è cittadino o ne abbia la nazionalità ha diritto di intervenire in protezione diplomatica nei confronti dell’autore dell’illecito, mediante rimostranze, richieste di risarcimento o l’instaurazione di un procedimento conciliativo o giurisdizionale purché ne ricorrano i presupposti. In virtù dell’esercizio della protezione diplomatica, lo Stato farebbe valere un proprio diritto per la violazione delle norme sul trattamento degli stranieri. La riparazione del torto commesso torna a vantaggio dell’individuo, quindi la tutela dell’individuo è soltanto mediata. Di regola l’individuo non ha alcun diritto che lo Stato nazionale eserciti la protezione diplomatica, ma questo naturalmente dipende dall’ordinamento interno dello Stato di cittadinanza dell’individuo. Secondo il diritto internazionale classico la riparazione era dovuta allo Stato che aveva fatto ricorso alla protezione diplomatica, con la conseguenza che il beneficio per l’individuo restava meramente eventuale. Lo Stato che nazionalizzava la proprietà dello straniero avrebbe dovuto versare l’indennizzo allo Stato nazionale dell’individuo, che avrebbe a sua discrezione deciso se trattenere l’indennizzo o versarlo all’individuo le cui proprietà erano state nazionalizzate. La protezione diplomatica copre solo quelle azioni degli individui non incaricati di funzioni ufficiali.

La natura dell’azione in protezione diplomatica è ben espressa in un celebre passo della sentenza della Corte permanente di giustizia internazionale nel caso Mavrommatis: “è un principio elementare del diritto internazionale quello che autorizza lo Stato a proteggere i propri cittadini che siano lesi da atti contrari al diritto internazionale commessi da un altro Stato dal quale non abbiano potuto ottenere soddisfazione per le vie ordinarie. Facendosi carico della causa di uno dei suoi sudditi, ricorrendo in suo favore all’azione diplomatica o a procedimenti giudiziari internazionali, tale Stato fa valere un diritto suo proprio, il diritto che ha di far rispettare, nella persona dei suoi cittadini, il diritto internazionale“.

Il principio secondo cui lo Stato ha un potere discrezionale nell’intervenire in protezione diplomatica è stato ribadito dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza sulla Barcelona Traction.

Una concezione più moderna è quella secondo cui lo Stato, nell’esercitare la protezione diplomatica, fa valere un diritto dell’individuo, che questi non può direttamente tutelare non avendo accesso ai meccanismi internazionali. Questa impostazione apre la possibilità di costruire un diritto dell’individuo ad ottenere che il proprio Stato intervenga in protezione diplomatica, limitandone la discrezionalità. Si tratta però di una costruzione non ancora consolidata in diritto internazionale che, se fosse accolta, offrirebbe all’individuo la possibilità di convenire in giudizio di fronte ad un tribunale interno il proprio Stato, per mancato esercizio della protezione diplomatica.

L’esercizio della protezione diplomatica è condizionato al previo esaurimento dei ricorsi interni. Lo Stato interviene solo dopo che l’individuo abbia espletato tutti i rimedi disponibili nello Stato dove ha commesso l’illecito; i ricorsi si intendono esauriti anche qualora l’ordinamento interno dello Stato del foro non abbia un apparato giurisdizionale adeguato. La regola del previo esaurimento dei ricorsi interni obbedisce a un criterio di economicità. Qualora l’individuo riesca ad ottenere la soddisfazione delle proprie pretese di fronte ai tribunali dello Stato dove ha commesso l’illecito, il ricorso dello Stato nazionale non è più esperibile.

Nel caso di danno diretto allo Stato, come l’affondamento di una nave da guerra o l’uccisione di un agente diplomatico, lo Stato danneggiato può intervenire senza alcuna necessità che sia attivata la regola del previo ricorso dei rimedi interni.

Ma tale regola, come anche la protezione diplomatica possono essere oggetto di rinuncia? Occorre distinguere. La regola del previo esaurimento dei ricorsi interni può essere oggetto di una rinuncia espressa. Ma, il consenso delle parti all’arbitrato implica l’esclusione della regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. La Corte Internazionale di Giustizia, nel caso ELSI, ha precisato che la regola non può essere oggetto di una rinuncia implicita, in mancanza di una chiara volontà dello Stato.

Il diritto ad intervenire in protezione diplomatica può essere oggetto di rinuncia da parte dello Stato, spettandone a questi la titolarità. Le clausole inserite nei contratti di concessione tra individuo e Stato straniero, per cui il primo si impegnava a rinunciare alla protezione diplomatica e a sottoporre la controversia esclusivamente alla giurisdizione locale, la cosiddetta clausola Calvo, sono state generalmente ritenute non produttive di effetti giuridici dalla giurisprudenza internazionale.

L’esercizio della protezione diplomatica spetta allo Stato di cui l’individuo ha la cittadinanza. Per gli apolidi, ove l’esercizio di tale protezione sia ammesso, vale il criterio della residenza. Di regola, la nazionalità dello Stato che interviene in protezione deve essere posseduta sia al momento in cui l’individuo subisce il danno sia al momento in cui lo Stato interviene in protezione. Si tratta del principio della continuità della protezione diplomatica. Qualora l’individuo abbia una doppia nazionalità, vale il criterio della nazionalità effettiva, cioè quella dello Stato con cui l’individuo abbia un collegamento più stretto, ad esempio residenza e domicilio fiscale.

Il problema della protezione diplomatica è più complicato quando si tratti di determinare la nazionalità delle persone giuridiche e in particolare quando venga in considerazione una società i cui azionisti siano in tutto o in parte stranieri. Il criterio per l’attribuzione della nazionalità è quello del luogo di incorporazione, che normalmente coincide con lo Stato in cui è stanziata la sede amministrativa della società e il suo controllo finanziario. Qualora invece non vi sia coincidenza, uno Stato diverso da quello del luogo di incorporazione può essere considerato come Stato nazionale nel caso in cui: la società è controllata da cittadini di un altro Stato, la sede di costituzione della società è meramente nominale e la sua sede amministrativa e il suo controllo finanziario si trovino all’estero e nel caso in cui la società non svolge nessuna attività sostanziale nel luogo di incorporazione. Lo scopo di una regola così rigira è quello di evitare una molteplicità di interventi in protezione diplomatica.

Nel caso della Barcelona Traction, società costituita in Canada, la Corte Internazionale di Giustizia negò che il Belgio (Stato di nazionalità degli azionisti di maggioranza) potesse intervenire in protezione diplomatica a favore della società, affermando che tale diritto spettava allo Stato in cui la società era stata costituita, cioè il Canada. La Corte Internazionale di Giustizia ha, infine, specificato che  lo Stato di nazionalità degli azionisti ha titolo ad intervenire qualora essi abbiano subito un danno diretto dei loro diritti.

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Le nazionalizzazioni

Le misure restrittive della proprietà degli stranieri hanno molteplici contenuti. Si distingue, generalmente, tra nazionalizzazioni, espropriazioni e confisca. Le prime hanno per oggetto un’intera categoria di beni e servizi, ad esempio le energie elettriche e sono attuate mediante provvedimenti legislativi; le seconde hanno per oggetto singoli beni e sono di regola eseguite con un provvedimento amministrativo. La confisca, invece, denota l’acquisizione forzosa di un bene senza la corresponsione di alcun indennizzo. Vi possono essere misure equivalenti, che non presuppongono il formale spossessamento del proprietario, quali ad esempio l’eccessiva tassazione. Si tratta di espropriazioni indirette o striscianti.

Lo Stato territoriale ha il diritto di nazionalizzare i beni degli stranieri. Tuttavia le nazionalizzazioni sono legittime purché sia corrisposto un indennizzo, altrimenti lo Stato nazionalizzante o espropriante commette un illecito internazionale. Sono comunque vietate le nazionalizzazioni a scopo discriminatorio. Condiziona la liceità delle nazionalizzazioni il requisito della pubblica utilità o altri motivi di sicurezza o interessi nazionali, che siano preminenti rispetto all’interesse dei singoli. Il requisito della pubblica utilità, pur essendo menzionato, non è unanimemente riconosciuto come requisito necessario per la liceità delle nazionalizzazioni.

Il problema più controverso in materia di nazionalizzazioni riguarda l’indennizzo. Esso deve essere corrisposto, il problema riguarda le sue modalità in quanto possono essere oggetto di controversia tra gli Stati esportatori di capitale e gli Stati che ospitano gli investimenti. Secondo gli Stati esportatori, le modalità di corresponsione sono quelle elaborate dal Segretario di Stato degli Stati Uniti Cordell Hull, secondo cui l’indennizzo avrebbe dovuto essere pronto adeguato ed effettivo, cioè avrebbe dovuto essere corrisposto immediatamente alla espropriazione del bene, corrispondere al suo valore e versato in moneta convertibile. Gli Stati del terzo mondo, che ospitano gli investimenti, non contestano l’obbligo di corrispondere l’indennizzo, ma affermano che questo dovrebbe essere determinato secondo l’ordinamento interno dello Stato ospite, tenendo conto delle sue capacità finanziarie. Questa seconda interpretazione è fatta propria dalla Carta dei diritti e doveri economici degli Stati.

Sebbene contestata, la formula Hull deve essere considerata come corrispondente al diritto consuetudinario ed è stata inserita in molti trattati, secondo cui l’indennizzo deve essere equivalente al valore di mercato. Nel determinare il quantum dell’indennizzo, occorre tener conto sia del danno emergente che del lucro cessante. Un indennizzo non corrisposto in tempi ragionevoli sarà produttivo di interessi. Per il calcolo della adeguatezza occorre trovare il giusto equilibrio tra gli interessi dell’investitore e i fini pubblici dello Stato razionalizzante.

La protezione degli investimenti all’estero

Tra gli Stati esportatori di capitale e quelli importatori si sono verificate spesso tensioni, che hanno messo a repentaglio gli investimenti effettuati da persone fisiche e giuridiche. La rivoluzione russa ha fatto emergere un’ideologia anticapitalista che è stata estesa ai paesi dell’Europa orientale compresi nell’orbita sovietica e in altri Stati a regime comunista. La decolonizzazione ha alimentato un forte risentimento antioccidentale e ben presto i nuovi Stati, che hanno la maggioranza in seno all’Assemblea Generale, sono riusciti a fare adottare importanti risoluzioni. La Corte internazionale di giustizia si è pronunciata per l’appartenenza al diritto internazionale consuetudinario del principio della sovranità permanente degli Stati sulle loro ricchezze naturali. La caduta dei regimi comunisti ha fatto riemergere il dogma dell’economia di mercato, anche in tali paesi. Ma il livellamento ideologico non ha fatto venir meno il rischio per gli investimenti all’estero, di qui la ricerca di adeguati meccanismi di protezione.

I contratti di concessione, ad esempio un contratto tra uno Stato e una società straniera per lo sfruttamento dei pozzi di petrolio, sono stipulati tra persone fisiche o giuridiche straniere e lo Stato ospite. Non sono accordi internazionali, ma trovano il loro fondamento all’interno dell’ordinamento giuridico dello Stato ospite. Il contratto può tuttavia prevedere la regolamentazione, in tutto o in parte, con il rinvio a una legislazione straniera.

Uno dei modi con cui gli investitori si proteggono da mutamenti legislativi indesiderati consiste nella stipulazione di clausole di stabilizzazione, volte a rendere privi di effetti eventuali mutamenti successivi della legislazione rilevante dello Stato concedente. Ma il valore di tali clausole è dubbio; taluni le ritengono addirittura nulle, perché contrarie al principio di sovranità permanente degli Stati sulle loro ricchezze naturali, altri le ritengono inefficaci. All’investitore non resterebbe che adire i tribunali interni dello Stato ospite. Il mutamento legislativo potrebbe assumere una rilevanza internazionale, qualora la sua attuazione comporti l’espropriazione dei beni dell’investitore.

Per coprirsi dai rischi non commerciali l’investitore ha a disposizione meccanismi di garanzia che si sommano a quelli esistenti negli ordinamenti interni. La Convenzione di Seul del 1985 ha istituito l’Agenzia di garanzia degli investimenti multilaterali, la quale conclude un contratto di garanzia con l’investitore assicurando i rischi derivanti da espropriazione, restrizione ai trasferimenti valutari, violazioni di obblighi contrattuali da parte dello Stato ospite, guerre civili.

Naturalmente possono essere stipulati accordi tra lo stato ospite e lo Stato nazionale degli investitori, con cui il primo si obbliga nei confronti del secondo ad accordare loro un determinato trattamento. Il tentativo di concludere un accordo multilaterale sugli investimenti, intrapreso presso l’OCSE è naufragato. Ma non mancano accordi a livello regionale o clausole inserite in accordi di più ampio respiro, come il NAFTA. Di regola gli accordi in materia di investimenti prevedono il ricorso all’arbitrato per dirimere le controversie tra Stato ospite e investitore. Questo strumento è preferibile rispetto ad altri come quello del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, poiché è difficile ottenere la corresponsione dell’indennizzo. Invece il lodo arbitrale è in genere eseguibile nei confronti dei beni all’estero dello Stato soccombente, ovviamente nei limiti in cui essi non godano della immunità dalla giurisdizione.

In materia di protezione degli investimenti è fondamentale la soluzione delle controversie tra investitore e Stato ospite. Uno degli strumenti di successo è rappresentato dal Centro internazionale per la risoluzione delle controversie in materia di investimenti (ICSID). Esso amministra sia una procedura di conciliazione sia una procedura di arbitrato. Mentre la prima ha lo scopo di facilitare un accordo tra le parti per la soluzione della controversia con raccomandazioni ad hoc, la seconda ha natura contenziosa e si conclude con l’adozione di un lodo vincolante per le parti.

Il Centro ha giurisdizione in merito alle controversie insorte tra un investitore straniero è uno Stato parte, la giurisdizione è fondata sul consenso delle parti che deve essere dato per iscritto. La sottoposizione della controversia ad arbitrato ICSID esclude che possa essere invocata la protezione diplomatica e questa regola è stata salutata positivamente poiché depoliticizza la controversia. La sentenza arbitrale ha efficacia esecutiva all’interno di qualsiasi Stato contraente della Convenzione ICSID senza necessità di exequatur, senza cioè l’esperimento di una procedura ad hoc dettata per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze straniere. Se lo Stato ospite rifiuta di dare esecuzione, la protezione diplomatica rivive.

Il tribunale ICSID applica il diritto indicato dalle parti, in mancanza applicherà il diritto dello Stato ospite e le regole di diritto internazionale rilevanti.

I rimedi contro una sentenza di questo Tribunale sono due: la richiesta di un giudizio di interpretazione, la revisione, qualora siano scoperti  fatti decisivi nuovi sconosciuti alla parte che li invoca e non imputabili a sua negligenza e l’annullamento per incorretta costituzione del tribunale, manifesto eccesso di potere, corruzione di un membro del tribunale, violazione grave delle regole fondamentali di procedura, mancanza di motivazione.

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Fonti normative:

  • Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati;
  • Convenzione del 1989 sui diritti del fanciullo;
  • art. 10, comma 3, Costituzione;
  • sentenza Corte di Cass., Sez. Un., 26 maggio 1997, n. 4674;
  • sentenza Corte di Cass. 25 novembre 2005, n. 25028;
  • art. 16 disposizioni preliminari al Codice Civile;
  • art. 2, 3 Costituzione
  • Convenzione internazionale dell’Aja del 1930;
  • L. 91 del 1992;
  • caso Mavrommatis del 1924;
  • sentenza sulla Barcelona Traction del 1970;
  • caso ELSI del 1989;
  • Carta dei diritti e doveri economici degli Stati del 1974;
  • Convenzione di Seul del 1985